“A LISCÍA”: Antico sistema di lavaggio della biancheria utilizzando cenere e acqua bollente

Wordpress, 02 Agosto 2017

Giovanni Borrelli

Nel ciclo annuale contadino il rito del bucato rappresentava un momento particolare, un vero e proprio cerimoniale familiare con rituali e regole precise. Tale lavoro, anche se faticoso per le donne (perché costrette a stare con le mani costantemente nell’acqua a insaponare, sciacquare, strizzare i panni e a tenere una posizione  scomoda), costituisce un momento particolare di aggregazione e di incontro dove poter scherzare, cantare e scambiarsi opinioni e consigli.

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Un luogo dove veicolano non solo pettegolezzi, annunci di nascite e di morti, racconti di tradimenti, di emigrazioni, di ritorni dalla guerra o dalla prigionia, ma anche luogo dove si rifletteva sulla propria “disgraziata” condizione di subalternità. Questo momento lavorativo, con i suoi spazi sottratti all’egemonia maschile, diventava una sorta di zona franca dove finalmente si poteva parlare dei propri problemi, confrontarsi e anche prendere coscienza della loro miserevole condizione; un momento che permetteva alle donne di parlare senza remore e soprattutto senza la presenza e il controllo dell’uomo. Si apriva così un minimo spazio di autonomia femminile, a volte guardata anche con sospetto perché poteva rappresentare una forma di emancipazione femminile. “liscía era praticata due volte all’anno durante l’estate nel cortile o sull’aia di casa, e d’inverno nella cucina che conteneva sempre un grande camino. Su di esso veniva sistemato un grosso recipiente di rame fornito di un coperchio, nel quale veniva fatta bollire l’acqua del bucato.

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“La grossa biancheria sporca” (lenzuola, asciugamani, traverse, tovagliati, tutti rigorosamente bianchi) veniva conservata anche per mesi ammucchiata in un locale della casa. Il detersivo usato era la cenere che veniva ricavata durante l’anno, bruciando nel camino legno di vite, di quercia, di noce, di ciliegio e di ulivo. Per fare un buon bucato non veniva usato legno poco pregiato come canne, torsoli delle pannocchie di granturco e le parti legnose degli steli di canapa i cosiddetti “Cannauccioli” (anche se per risparmiare le famiglie povere lo usavano ugualmente con il rischio di macchiare la biancheria).

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La cenere doveva essere finemente setacciata per poter essere impiegata per il bucato. Dalle testimonianze raccolte si apprende che la sistemazione dei panni veniva fatta con l’abilità e la precisione di un vero e proprio rituale. “I panni” venivano sistemati in un mastello di legno di faggio “Cupiegliu”, nel quale era praticato un foro sul fondo per lo scolo dell‘acqua, chiuso da un tappo di sughero o di legno chiamato turz, avvolto in uno straccetto che serviva da guarnizione. La sistemazione avveniva con una logica precisa: quella di occupare meno spazio; si piegava con destrezza la biancheria in modo che occupasse poco spazio e, allo stesso tempo, affinché permettesse all’acqua della cenere di poter filtrare bene. Sul fondo del mastello venivano messe le tovaglie piegate in quattro o in sei parti nel senso della lunghezza, poi le lenzuola, federe, asciugamani e tutti gli altri indumenti rigorosamente bianchi. Sulla biancheria, disposta in perfetto ordine, veniva stesa una tovaglia pulita e sopra di essa un apposito telo spesso e robusto ma permeabile, “Cennerale”, su cui veniva steso uno stato di cenere.

5 - Si versa l'acqua bollente nel mastello 1

A questo punto iniziava il delicato lavoro del lavaggio. Per diverse ore, ad intervalli regolari, bisognava versare secchi di acqua bollente nel mastello. L’acqua filtrava tra la cenere, sbiancava il telo e i panni e usciva dal foro alla base della tinozza. Se la biancheria era molto sporca doveva rimanere in ammollo per tutta la notte. Il detersivo scioglieva le macchie, ma ne rimaneva l’alone. Si lasciava raffreddare, si toglieva il telo e si risciacquavano in acqua fredda sfregandoli con la pietra pomice e servendosi del sapone fatto in casa con il potassio. Il bucato, dopo il risciacquo con acqua fredda, era sciorinato da due donne che tenevano ben stretti i capi di biancheria alle estremità e li strizzavano, girandoli in senso contrario, finché non scendeva neppure una goccia d’acqua. I “panni” venivano stesi nel cortile o sull’aia appesi a una fune, sostenuti da forcine.

 

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