I giacimenti di
Calvi Risorta – III puntata
Econote,
06 giugno 2016
Gianluca Vitiello
Nei
primi giorni di giugno del 1978, un gruppo di venti agricoltori era al lavoro
fin dalle prime ore del mattino per la raccolta delle pesche. Si iniziava tutte
le mattine alle 5 in punto, non un minuto più tardi, in particolare in
quell’estate, una delle più calde del decennio, con il termometro che era
schizzato in alto già dai giorni di fine maggio. Dopo pochi minuti dall’inizio
del lavoro, accadde qualcosa. Iniziarono a sentirsi male. Vomito, soffocamenti,
giramenti di testa, svenimenti. Il caldo però non c’entrava per niente. Alcuni
riuscirono comunque a scappare, in cerca di soccorso. Raccontarono che al loro
arrivo nei campi, avevano trovato ad attenderli una sottile nebbiolina.
Giuseppe Clemente comandava la stazione dei carabinieri di Sparanise. Di quel
periodo ho rintracciato una vecchia foto che lo ritrae alla sua scrivania. Un
ufficio scarno, come ci si aspetterebbe per una caserma di un piccolissimo
centro campano negli anni ’70. Clemente indagò, e scoprì la pesante
contaminazione di quei terreni. Quando, con una pala meccanica, iniziò a
scavare, i rifiuti vennero fuori subito. Ma la cosa peggiore, è che sotto altri
strati di rifiuti sorreggevano i primi. Di quei momenti Gino ricordava tutto,
sia perché la cosa ebbe molta risonanza in paese, sia perché ricordava quegli
anni come gli ultimi felici prima della lunga malattia, che avrebbe sconfitto
dopo sei anni di sofferenze. Nonostante le voci insistenti, nessuno immaginava
che la situazione fosse tanto grave. Fu informata la procura di Pignataro Maggiore,
che senza celebrare il processo condannò la Pozzi Ginori al pagamento di 250
mila lire per la violazione dell’articolo 674 del codice penale. L’articolo
recitava “Getto pericoloso di cose”, e quella cifra fu tutto ciò che la Pozzi
ebbe a pagare per la faccenda. La comunità locale, ormai con le spalle al muro,
si indignò per la risibile condanna inflitta all’azienda. Ma durò poco. D’altra
parte quasi tutti avevano qualche parente che lavorava lì dentro. La politica
restò immobile, e sui giornali la notizia passò in sordina. Erano anni
infuocati. Moro era stato assassinato solo un mese prima. Altri i temi
riempivano le pagine dei giornali. Quando si aprì il decennio successivo, il
gruppo di Bardellino, affiliato a Cosa Nostra, già dominava nei territori del
casertano. Insieme agli storici alleati del clan Alfieri e ed altri clan,
eliminò la NCO di Raffaele Cutolo. Una guerra sanguinosissima, con alle spalle
il controllo del grande affare della ricostruzione post-terremoto. Per anni il
business del calcestruzzo arricchì le casse dei clan. Grandi opere
pubbliche ed edilizia privata: era necessario tanto cemento, e si iniziò a
scavare ovunque per recuperare gli inerti necessari alla produzione del
calcestruzzo, dal litorale domizio, fino ai fianchi
delle montagne. Per dirla con le parole del pentito Carmine Schiavone, si
scavavano tante buche, anche per le fondazioni di opere come i giganteschi
viadotti della TAV, o della superstrada Nola – Villa Literno. Fu in quel
momento che si incontrarono gli interessi dell’industria del Nord, della
politica e della camorra. Le buche furono riempite fino all’ultima, con rifiuti
tossici. Intanto Bardellino era stato assassinato in Brasile nel 1988, e una
nuova leva di camorristi aveva preso il comando del clan dei casalesi.
Anche
la discarica della Pozzi, entrò nel grande giro di quelle utilizzate dai
casalesi. La fabbrica era entrata in crisi nella seconda metà degli anni ’80, e
poi fu chiusa definitivamente. Il giornalista Salvatore Minieri
prese a occuparsi della faccenda nel 2011. La storia della discarica della
Pozzi la sentiva da quando era ragazzino. Negli anni ’80, da liceale, ci andava
spesso a vedere di persona quell’area su cui circolavano tante storie e qualche
leggenda. Erano più che altro voci sussurrate a mezza bocca, di cui è intrisa
tutta la vicenda dello smaltimento illegale di rifiuti. Voci silenziose che
emergono dal sottosuolo, mille spifferi che non raggiungono mai la consistenza
di voce piena. Nei suoi ricordi degli anni ’80, i racconti degli operai anziani
della Pozzi erano un susseguirsi di allusioni, di cose non dette e di segreti
inconfessabili. Ombre notturne che si aggiravano per i terreni intorno alla
fabbrica come spiriti maligni, riversando nel terreno sostanze innominabili e
pericolosissime. Le voci erano rimaste sotterranee anche dopo che la Pozzi
aveva chiuso. Eppure c’era qualcosa che faceva pensare che la situazione fosse
addirittura peggiore rispetto a quanto scoperto dal comandante Clemente nel
1978. Per Salvatore Minieri quel qualcosa aveva a che
fare con la sua percezione visiva. Lui d’altra parte su quei terreni ci andava
addirittura a correre. Si stava preparando per qualche gara di mezzo fondo e il
terreno intorno al rudere della Pozzi era il posto ideale per allenarsi. Lo
aveva fatto fino al 2011. Poi, insieme a due colleghi iniziò a interrogare
vecchie foto aeree, scattate alla fine degli anni ’60 proprio sulla zona dello
stabilimento. Il terreno appariva in quelle immagini come una vallata,
degradante dall’impianto fino al ruscello, popolata da una fitta vegetazione e
alberi da frutto. Il passo successivo era confrontare l’immagine con una
aggiornata. Così si dotarono di un drone, lo fecero innalzare sull’area e
scattarono delle foto. Il risultato fu sorprendente. La vallata era stata completamente
sostituita da varie collinette che l’avevano riempita completamente. E questo
poteva significare solo una cosa. L’allarmante scoperta raccolse come sempre il
generale disinteresse di politica, stampa e società locale. Fino a quando, nel
2014, munito di una semplice zappa, Minieri iniziò a
scavare in più punti dei terreni dell’ex Pozzi. Pochi colpi di zappa, venti o
trenta centimetri di terreno rimosso, e i rifiuti emersero a fiotti, come
liquido compresso in un contenitore ormai troppo piccolo. Vari strati di terra,
prima di colore azzurro, poi rosso, infine fango melmoso e puzzolente quando la
zappa affondò fino a 50 centimetri. Il tutto fu ripreso in un video, che fu
postato in rete. Finalmente si accese l’interesse del popolo del web. E per fortuna
anche del comandante Vincenzo Gatta, della forestale. Quando iniziarono gli
scavi e i primi rilievi fu definitivamente chiaro che si trattava della più
grande discarica d’Europa, con la sua estensione di oltre 25 ettari. Materiali
provenienti da gran parte d’Italia, molti paesi europei e persino dall’estremo
Oriente. Segno evidente che quella discarica era stata utilizzata ben oltre la
data di chiusura della Pozzi. Secondo alcune testimonianze addirittura fino al
2011. Minieri ritiene che vi sia stato un periodo di
cogestione della discarica, divisa a metà tra Pozzi e camorra, prima che la
Pozzi scomparisse del tutto. Ancora una volta, al centro c’era la grande
industria. Perché se è vero che lo scempio campano trae origine dall’intreccio
di interessi di politica, imprenditoria e camorra, secondo alcune testimonianze
non si sarebbe trattato esattamente di un incontro a metà strada. Gli scavi
della forestale avevano portato alla luce il metodo classico di interramento
dei rifiuti dei casalesi, a strati separati da cemento, quello che tutti
chiamano il “biscotto”, una sorta di firma. Vecchi operai, anche di altre
fabbriche, mi hanno però raccontato che le tecniche di interramento dei rifiuti
erano un bagaglio consolidato di una fetta di aziende italiane. E che la mafia
casalese, una volta entrata nel business, si sia avvantaggiata di conoscenze
tecniche già sperimentate.
Quale
che sia la verità su Calvi Risorta, è uno schema che si ripete. La
competitività di interi comparti industriali basata sullo sfruttamento
selvaggio dei territori, in particolare del Sud. Al quadro bisogna aggiungere
gli altri elementi. La camorra, certo, ma soprattutto la parte di borghesia
campana che sulle emergenze si è arricchita con consulenze e incarichi
strapagati e quasi sempre fasulli, e la politica collusa con la criminalità.
Alla base di tutto ci sono le reti clientelari. Non è possibile comprendere
queste vicende, e neppure il grado di consenso di cui gode il sistema
nonostante le tante morti, se non si considera che le emergenze post-terremoto
e rifiuti hanno rappresentato in Campania anche lavoro per tanta gente, e di
conseguenza il controllo pressoché totale dei pacchetti di voti in determinate
zone. Ancora una volta benessere fittizio, in cambio della libertà e sempre più
spesso della vita.
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