I giacimenti di Calvi Risorta – II puntata
Econote, 30 maggio 2016
Gianluca Vitiello
Una
delle cose che ho imparato in questi anni in cui mi sono occupato della vicenda
rifiuti tossici, è che gli avvenimenti e le parole non sono mai a caso. Tutto
ha un significato molto preciso. Ed è per questo che è impossibile scriverne
standone all’esterno, alla propria scrivania, senza incorrere in banalità.
Niente è come sembra dall’esterno. Riflettevo su questo mentre mi ero rifugiato
nel bar di fronte alla discarica, sulla statale. Al fresco, con l’aria
condizionata, cercavo di rimettere in ordine le idee e le immagini di quella
mattinata. Qualche giorno prima, avevo incontrato nel basso Lazio, dove si era
trasferito, un vecchio operaio della Pozzi Ginori. Gino era entrato in fabbrica
nella seconda metà degli anni ’60. Prima di allora, come tanti altri, lavorava
la terra. Giorni e anni passati a spezzarsi letteralmente la schiena, con i
pesanti stivaloni immersi nel fango. Viveva non lontano dalla zona in cui fu
costruita la fabbrica, con la moglie e tre figli. Aveva una bicicletta e un
divano buono dove la sera si addormentava subito dopo cena. Il resto della
mobilia se l’era costruita con le sue mani. Quando furono un po’ più grandi, i
figli presero ad aiutarlo nei campi, e fu una fortuna perché erano tempi in cui
il lavoro, da sempre duro e scarno di soddisfazioni economiche, stava
diventando sempre più difficile a causa della progressiva ascesa della grande
distribuzione. Riuscì a sopravvivere per qualche tempo. Anni che lui stesso
ricorda come molto difficili. La grande fabbrica e la successiva assunzione
giunsero come una manna insperata. È difficile capire cosa abbia significato
un’assunzione in fabbrica per tanti agricoltori. Un salario fisso, la macchina
, un’aggiustatina alla casa, il televisore, qualche elettrodomestico, più
avanti le prime vacanze, la possibilità di spostarsi anche di qualche centinaio
di chilometri. Detto così, sembra niente. Se facciamo riferimento alla vita che
si conduce comodamente oggi, quando, persino in tempi di crisi economica,
nessuno è sprovvisto dei più moderni ritrovati della tecnologia, sembrano
cambiamenti trascurabili. Negli anni ’60, in quel lungo dopoguerra che si
apriva alle lusinghe di un boom economico che faceva sognare, erano invece cose
che spaccavano in due una vita. Una vera rivoluzione. Dopo tanta sofferenza,
finalmente un certo benessere. I figli di Gino, poterono persino riprendere gli
studi, che avevano condotto in maniera saltuaria.
Progettato
già a partire dal 1959 dagli architetti Figini e Pollini, lo stabilimento di
Calvi fu ultimato nel 1962. Faceva parte di una serie di 5 impianti chimici che
la Pozzi aveva impiantato a cavallo tra i comuni di Sparanise e Calvi Risorta.
Davano lavoro a circa 2000 operai e vi si producevano collanti, vernici, tubi
in pvc, oltre alle ceramiche. I terreni circostanti
erano coltivati con alberi da frutto. Proprio dove sorgeva il piazzale dello
stabilimento Pozzi, fino alla fine degli anni ’50 le famiglie dell’agro Caleno
si recavano ad acquistare la frutta direttamente dai coltivatori. Nel 1963 gli
impianti funzionavano già a pieno regime, un cambiamento radicale avvenuto nel
giro di pochissimi anni. Industria chimica inquinante al centro di terreni a
vocazione agricola di qualità. In quegli anni, interrare gli scarti e i rifiuti
di produzione nei terreni intorno alla fabbrica era una diffusa consuetudine.
Non solo a Calvi. Ci sono interi appezzamenti di terreno intorno alle grandi
fabbriche del Nord, ricolmi di veleni. Prima che la convergenza degli interessi
di parte dell’industria italiana, della malavita, di ambienti massonici e
apparati dello Stato trasformasse il Sud in una grande pattumiera, è così che
l’industria italiana ha risolto il problema dello smaltimento delle scorie,
fino a saturare vaste aree della pianura padana. Anche a Calvi, che la Pozzi
interrasse i suoi pericolosi solventi in quei terreni, era una cosa che in paese
era nota a tutti. Una di quelle cose che tutti sanno ma che nessuno osa dire ad
alta voce. Troppo forte il ricatto occupazionale, troppo potente la paura di
perdere i piccoli privilegi acquisiti, di dover ritornare alla vecchia grama
vita di bracciante. Storie di cui il boom economico italiano è pieno. Il muro
di silenzio non si ruppe neppure quando cominciarono ad ammalarsi i primi
operai. Nelle fabbriche della zona circolavano sempre più spesso voci,
anch’esse sotterranee, che facevano riferimento alla malattia. “Brutto male” –
lo chiamavano tutti – e ancora oggi è rimasto così, senza alcun riferimento a
quali ne fossero le cause. Quando qualcuno si ammalava, in genere non
denunciava neppure la cosa. L’unica cosa di cui si preoccupava era cercare di
inserire un figlio al proprio posto in fabbrica. Un modo per non far sfumare il
relativo benessere acquisito. Si ammalò anche Gino. Era l’inizio degli anni
’80, e quella diagnosi quasi se la aspettava, da un momento all’altro. Gino
infatti parlava del suo tumore come di una eventualità che aveva messo in
qualche modo in conto.
Una
situazione simile l’avevo trovata qualche mese prima. Fuori i cancelli
dell’inceneritore di Acerra, la gente era tornata a protestare, un decennio
dopo la grande mobilitazione contro l’apertura stessa dell’inceneritore. Il
motivo era il conferimento nell’impianto delle ecoballe
provenienti dalla località Coda di Volpe. Era una giornata piovosa, e i pochi
che resistevano al freddo sotto la minaccia costante dello sgombero forzato
avevano una gran voglia di parlare, di raccontare le loro storie. Mi si
avvicinavano a gruppi e mi raccontavano le tragiche vicende di uno dei
territori maggiormente compromessi dal punto di vista ambientale. Di quelle
persone, decine, nessuna era scampata al terribile male. E altri in famiglia
avevano subito la stessa sorte, ma non avevano avuto la loro stessa fortuna di
poterlo raccontare. Quello che mi colpì è che tutti parlassero del cancro come
di un passaggio obbligato della vita. Come sposarsi, avere un figlio, o
laurearsi. Ma le similitudini si fermano qui. Perché a Calvi, tra i vecchi, era
diffusa una certa tolleranza nei riguardi del problema. Il ragionamento
sotterraneo – e mai palesato per la verità – era più o meno questo: la fabbrica
ci ha dato tanto, qualcosa bisogna pur concedere. Quel qualcosa in molti casi è
stata la vita.
Chi
ha avuto la possibilità di visitare la fabbrica, mi ha riferito che non
esistevano sistemi di smaltimento né vasche di depurazione. D’altra parte,
negli anni ’60 l’attenzione alle problematiche ambientali era quasi
inesistente, e la soluzione più conveniente era offrire ai contadini fino a
cinque volte il reddito che riuscivano a ricavare dall’attività agricola per
l’interramento dei rifiuti. Un affare imperdibile per tutti. E così alla fine
degli anni ’70, i terreni intorno alla fabbrica erano già saturi di veleni.
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