I giacimenti di
Calvi Risorta – I puntata
Econote, 23 maggio 2016
Gianluca Vitiello
Uno
dei comuni dell’Agro Caleno, nell’Alto casertano, noto nel mondo romano per le
sue produzioni artigiane, e con una moneta propria già nel III secolo a.C. Quasi
150 chilometri quadrati di terre tra le più fertili del continente, di
quelle che “anche se ci butti una pietra, diventa un albero”. Fino agli anni
’60, la zona dall’alto appariva come una nuvola verde di alberi da frutto. Poi
i tempi sono cambiati – come ripetono quasi tutti in zona. I nuovi tempi
avevano la faccia grigia e la puzza maligna di giganti di cemento, che negli
anni del boom economico hanno iniziato a prendere il posto degli alberi.
L’agognata industrializzazione ha spezzato secoli di lavoro durissimo,
cadenzati dai ritmi del sole, sotto l’afa bollente o al gelo del vento sferzante
degli Appennini. Per molti, una sorta di miraggio, la promessa di una vita un
po’ più comoda, di un benessere che significava tante cose, tutte insieme.
Eppure oggi, quasi tutti nel casertano associano alla fabbrica un’idea di
morte, di malattia o di mutilazione. Una grande peste che ha stravolto
orografie, dilaniato corpi sociali, inoculato veleni.
Decisi
di andare a Calvi agli inizi di luglio.
Alla metà del mese precedente, quella località con un nome talmente strano da
far strabuzzare gli occhi, era finito sulle prime pagine di tutti i giornali. Scoperta
la discarica di rifiuti tossici più grande d’Europa, avevano titolato
all’unisono. La discarica più grande d’Europa era un’enorme appezzamento di
terreno alle spalle dell’ex Pozzi Ginori, dal quale erano venuti fuori i
rifiuti di oltre quarant’anni di sversamenti illegali. Ci andai lo stesso
giorno in cui era in programma il sopralluogo della commissione parlamentare
d’inchiesta, presieduta da Alessandro Bratti. Il termometro della
macchina segnava 39 gradi, l’asfalto emanava calore che come una tendina mossa
da un sottile sbuffo di vento deformava i contorni delle fabbriche che mi
passavano davanti, tutte in fila come un’unica striscia di cemento che spaccava
in due le campagne.
Il
piazzale della Pozzi era l’ultimo della fila. Perso nel vuoto come può esserlo
una vecchia stazione di autobus abbandonata. Un paio di pensiline sbrecciate da
un lato, dove gli operai probabilmente attendevano di salire sul bus che li
avrebbe riportati a casa, una cancellata per tutta la lunghezza dello spiazzo,
e un varco, in un angolo, che conduceva ai terreni alle spalle della fabbrica.
Lo stabilimento se ne stava adagiato come un enorme relitto sul fondo del mare.
Calcestruzzo corroso dalla pioggia e cotto dal sole. Nella luce abbagliante
di inizio luglio, sembrava avvolto da un alone scuro, che si intensificava
nell’inviolabile buio pesto degli interni. Fuori i cancelli, attendevano i
giornalisti locali e un gruppo di attivisti dell’Agro Caleno, tutti addossati a
un muro che offriva 50 centimetri di riparo dal sole martellante. Corpi
semi-liquefatti, in grado di emettere poche faticose parole, ma comunque
presenti, come sempre negli ultimi 20 anni, in prima linea per combattere un
nemico che in molti hanno chiamato camorra, ma che ha in realtà confini molto
più ampi, non sempre leggibili. Quanto è lontana Napoli da questa terra un
tempo fertile, trasformata in una landa desolata e avvelenata? Tanto,
tantissimo. Secondo alcuni la grande città è persino irritante, con i suoi
giornalisti comodamente seduti dietro la scrivania di un giornale importante a
scrivere pezzi pieni di banalità e di inutile retorica. Se di Terra dei fuochi
se ne sa un po’ di più è senz’altro grazie al lavoro dei precari, dei
collaboratori dei piccoli giornali e delle testate online, con pochissime
eccezioni.
Li
guardavo stupito, io che avevo girato tutta la Campania per due anni di
seguito, a raccogliere storie e materiali. Ammiravo il loro senso pratico,
quelle piccole attenzioni quasi maniacali che diventano il pane quotidiano di
chi è abituato a stare anche 14 ore fuori casa, per fare bene il proprio
lavoro. Arrivò la delegazione della commissione, scortata dai veicoli della
forestale. I poliziotti che fino a quel momento avevano presidiato pigramente
l’ingresso, presero ad asciugarsi il sudore che sgorgava dalle pesanti uniformi
e iniziarono i controlli. L’accesso era consentito solo ai giornalisti muniti
di regolare autorizzazione. Così, per passare i vari posti di blocco, mi
posizionai esattamente al centro del gruppetto. Quelli che aprivano la fila,
Salvatore Minieri – colui che aveva fatto esplodere
il caso mediatico – e Francesca Ghidini della Rai, ripetevano come un mantra:
“Stampa, stampa”, sollevando all’altezza del torace il prezioso tesserino.
Procedevo dietro di loro con lo sguardo costantemente sull’iPhone,
per evitare che qualche poliziotto potesse incrociare i miei occhi e accorgersi
che tra le mie mani c’era solo un telefono e non il lasciapassare di cartone.
Quando
fummo finalmente all’interno, i viottoli polverosi diventarono braci ardenti
sotto le nostre suole. Poco più avanti, davanti agli scavi, i componenti della
commissione di inchiesta ascoltavano le parole del generale Costa. Mi
sembravano elegantissimi nei loro abiti casual persino in una situazione del
genere. Ci avvicinammo agli scavi eseguiti nelle settimane precedenti dalla
forestale, con il sangue che pulsava sempre più velocemente nelle mie tempie e
il respiro che si faceva affannoso dietro la pesante maschera che mi lasciava
scoperti solo gli occhi. Era la prima volta che la indossavo, e mi ricordava in
qualche modo le saghe spaziali degli anni ’70. Le trincee scavate erano
cinque, disposte in parallelo, lunghe almeno quaranta metri e a distanza di una
ventina di metri l’una dall’altra. Il terreno estratto formava cumuli dai
colori cangianti, tutta una scala cromatica che escludeva solo il colore
naturale della terra. Lo spettacolo era apocalittico. Dalla terra era venuto
fuori di tutto.
Polveri nere, solventi che avevano colorato di rosso il sottosuolo, fusti
arrugginiti, grandi contenitori di plastica, plastica triturata, sacchi
contenenti materiali pericolosissimi, amianto in abbondanza, di cui lo stesso
scheletro della fabbrica era imbottito. Su molti, nonostante i tanti anni
trascorsi, la firma inequivocabile del produttore. La Pozzi, in abbondanza, ma
anche società spagnole, francesi, la Good Year. Quando le avevano tirate fuori dalla terra, alcune
sostanze avevano preso fuoco al contatto con l’atmosfera. Le trincee erano
numerate con numeri progressivi, affidati a un paletto conficcato nella terra.
Quella più profonda grondava infinite striscioline di un materiale sintetico
arancione. Sembravano zampilli di sangue vivo che inondavano una ferita
infetta. In qualche punto si vedevano ancora delle strane palline nerastre.
Erano venute fuori al momento in cui la ruspa aveva affondato per la prima
volta i suoi denti nel terreno. A guardarle stimolavano il primordiale istinto
di farle rotolare con un calcio. Palline da golf – aveva pensato qualcuno – per
quanto strana fosse la cosa. Poi avevano capito. Erano palline chimiche, che in
origine dovevano essere bianche. Venivano utilizzate per ripulire i macchinari
al termine dei cicli di lavorazione. Le avevano gettate nella terra impregnate
di solventi e sostanze cancerogene.
Ma
era in fondo, vicino all’ultimo scavo, che c’erano le testimonianze più
inquietanti. Enormi buste contenenti anidride maleica e solfato di bario,
sostanze ustionanti e altamente cancerogene. Sulle buste, leggibilissime e non
offuscate dal tempo le scritte: Made in the People’s
Republic of China.
Erano
arrivate sin lì dalla Cina. Servendosi degli smartphone
alcuni cercavano di capire se tutte quelle sostanze fossero necessarie alle
lavorazioni della Pozzi. Non tutte, no. In quella discarica era avvenuto qualcosa
che andava al di là dell’attività della fabbrica. Scarti dell’industria di
mezzo mondo. Intanto l’aria si faceva sempre più irrespirabile. Afa e un odore
acre, una miscela insopportabile. Alcuni iniziarono a tirare fuori dalle borse
bottigliette di acqua, con cui si bagnavano la fronte e gli occhi arrossati.
I
miei occhi, invece, guardavano oltre i cumuli di terreno. Guardavano verso la
struttura che mi ha accompagnato costantemente nei due anni di sopralluoghi: il
viadotto dell’alta velocità ferroviaria. Sempre presente, sullo sfondo di quasi
ogni discarica che avessi visitato. Le vie dei rifiuti hanno seguito percorsi
molto precisi, quelli delle grandi opere pubbliche degli anni ’80 e ’90. Due in
particolare: la superstrada Nola – Villa Literno e la TAV. In entrambi i casi i
rifiuti sono stati interrati negli stessi scavi eseguiti per le fondazioni. Un
modo per guadagnare due volte con la stessa operazione. Cemento e rifiuti come
sempre a braccetto nella Campania delle emergenze infinite. A scavare nel buco
nero della storia, emerge una data precisa: 23 novembre 1980. Il terremoto
dell’Irpinia ha segnato la condanna della regione, generando l’immensa economia
del cemento, la corruzione, l’escalation della criminalità, le collusioni
sempre più salde con la politica. Buche, cave, interi versanti delle montagne
scavati per estrarre gli inerti necessari alla produzione del calcestruzzo.
Quelle buche, nei decenni successivi, sono state riempite con i rifiuti tossici
di tutta Europa. A volte un incubo può generarne altri, persino peggiori.
Ma
Calvi Risorta racconta anche altre storie. Storie legate inizialmente non ad un
evento luttuoso come un terremoto, ma alla speranza, all’ottimismo del boom
economico italiano. La fabbrica alle nostre spalle era stata considerata per
tanto tempo “il progresso”, arrivato a liberare contadini analfabeti dalle
catene di un lavoro massacrante. Sul viadotto, dal quale non riuscivo a
distogliere lo sguardo, passò un treno, velocissimo e silenzioso come sempre.
Sembrava una navicella spaziale di passaggio su una landa desolata. Il nuovo
progresso che sorvolava una terra sedotta e poi lasciata alle sue rovine,
esclusa dal futuro.
Andai
via mentre l’onorevole Bratti, in piedi si un cumulo di terreno, usava parole
caute per descrivere lo scempio. Bisogna valutare la pericolosità del sito,
bisogna capire. Toni sinistramente in assonanza con quelli usati durante quei
giorni da altri esponenti politici.
Visita
www.CalviRisorta.com