Capece Zurlo: vescovo di Calvi e arcivescovo di Napoli

Comune di Pignataro, 22 ottobre 2015

Angelo Martino

Capece Zurlo, vescovo di Calvi e arcivescovo di Napoli

Giuseppe Maria Capece Zurlo, nato da famiglia patrizia a Monteroni di Puglia nel 1711 e morto in esilio a Montevergine il 31 dicembre 1831, con alle spalle una lunga carriera nell’ordine dei Teatini, fu nominato Vescovo di Calvi nel 1756 per rimanere in tale sede fino al 1782, allorché diventò Arcivescovo di Napoli. Minore del fratello Nicola, ma prima di lui entro nel noviziato di SS. Apostoli il 13 giugno 1720 a dodici anni. Il 6 gennaio 1727 emise la solenne promessa nella chiesa di San Paolo in Napoli. Tramite le fonti dell’Archivio Generale dei Teatini di Roma, è possibile ricostruire la sua carriera in tale Ordine con incarichi di responsabilità, che dimostrano una stima da parte dei superiori, i quali dovettero considerare delle deroghe per alcuni incarichi, essendo inferiore al limite di età previsto.

Nel 1728 Capece Zurlo poté già dedicarsi allo studio della filosofia e della Teologia speculativa. Il 19 dicembre 1733 fu ordinato sacerdote e destinato alla Chiesa dei SS. Apostoli di Napoli. Fu, invece, nel 1741 che l’Arcivescovo di Napoli Giuseppe Spinelli lo scelse per ricoprire la carica di consultore del Sant’Ufficio. In tale anno ebbe l’incarico di sostituire il confratello Andrea Rossi, nominato vescovo, nell’opera svolta dalla confratelli dei Bianchi della Giustizia. L’anno successivo fu superiore della casa di Sant’Eligio di Capua. Fu con tale incarico che partecipò nel 1743 al Capitolo generale del 1743, tenuto a Roma, essendo per la prima volta nominato procuratore generale. Nel successivo Capitolo del 1747 gli fu conferito la nomina di procuratore generale per gli affari con la Santa Sede e per le cause dei santi. Si occupò in tale ufficio con passione e competenza, applicandosi in tale delicato ruolo finché nel Capitolo del 1756 si era in procinto di dargli la carica di Generale dell’Ordine, quando fu destinato alla Diocesi di Calvi.

Scelto quale vescovo di Calvi dal re Ferdinando IV e preconizzato da Benedetto XIV, Giuseppe Maria Capece Zurlo fu consacrato a Roma nella Chiesa di S. Silvestro al Quirinale, dal cardinale Giuseppe Spinelli, assistito da Domenico Giordani, arcivescovo titolare di Nicomedia, e da Giovanni Battista Bortoli, vescovo di Feltre.

Le notizie più complete relative all’episcopato caleno di Mons. Capece Zurlo sono quelle fornite dal barone Antonio Ricca nel testo “ Osservazioni del Barone Antonio Ricca sull’antica Calvi sulle risposte del signor Zona” e da Antonio Trama nel profilo apparso su “Le Scienze e La Fede”. Il primo testo tende a mettere in risalto la capacità di governo di Giuseppe Maria Capece Zurlo mentre il secondo scritto è tutto mirato a difendere l’operato del cardinale di Napoli dalla “damnatio memoriae” messa in atto dai Borbone per il suo atteggiamento favorevole alla Repubblica Napoletana del 1799.

Il Ricca ricorda i benefici a vantaggio della diocesi di Calvi nell’arco dei 27 anni in cui fu Vescovo “e tutti a un sol fine diretti, cioè al servizio della Chiesa, alla cura spirituale delle anime, e ad accrescere il lustro e splendore della Diocesi”, soffermandosi ad analizzare le azioni di conservazione e restauro dei beni artistici della cattedrale quali la ristrutturazione del succorpo nel 1762, della pavimentazione nel 1778, del rinnovo completo della sacrestia nel 1779, della ritrattistica a fresco dei vescovi della diocesi commissionata al pittore Angelo Mozzilli discepolo di Paolo de Majo. Il vescovo Zurlo fece costruire anche l’episcopio in Pignataro.

Tuttavia il Ricca afferma: “Ma niuna delle cure del nostro eccelso Pastore superò mai la sua attenzione quanto l’assiduo e costante zelo impiegato nelle visite annuali della Chiesa Diocesane, e nell’assistenza prestata al Seminario in tutto ciò che per l’esatto regolamento, e per la buona disciplina faceva mestieri. Ed in modo particolare giudicò quest’ultima di tanta importanza, che o la rigida stagione dell’inverno, o i più forti calori della state non poterono giammai frastornarlo, che almeno più volte in ogni settimana si portasse a visitare le scuole; tanto era l’ardore che mostrò per l’educazione della gioventù”.

Il Ricca ricorda, quindi, l’incarico affidato dal Capece Zurlo al canonico Agostino Fusco di scrivere le Memorie storiche e civili e sacre di Calvi, smarrite durante l’episcopato del successore mons. Andrea De Lucia. Il vescovo teatino viene, altresì, descritto dal Ricca quale uno strenuo difensore dei diritti della chiesa locale, e si ricorda una forte contesa che lo ebbe protagonista contro i comuni di Pignataro e Calvi per l’erezione di un ospizio estivo per i seminaristi.

Antonio Trama, invece, tiene a rimarcare “la sua singolar mansuetudine, la profondissima liberalità, la straordinaria umiltà e la frugalissima vita […] L’accesissimo zelo pastorale, che il consumava faceva sì ch’è fosse il soccorritore dei poveri, il sostegno dei buoni e la guida dei miseri traviati, perché ritornassero sul retto sentiero”. Lo studioso napoletano ci teneva anche a mettere in luce il rapporto di sinergia tra Capece Zurlo con l’arcivescovo di Capua, suo metropolita, mons. Michele Maria Capece Galeota, il quale, conosciute la somma prudenza del vescovo caleno Zurlo nell’amministrazione degli affari, lo volle consigliere fidatissimo di quella che era una vasta provincia ecclesiastica.

Il Trama descrive anche l’incontro del vescovo con il re in occasione di una tempesta, da cui il Ferdinando IV era stato sorpreso e che per scamparvi era riparato nella Chiesa cattedrale di Calvi. In tale occasione, quindi, Mons. Maria Giuseppe Capece Zurlo ebbe a conoscere meglio il sovrano durante la condivisione di un “frugale pasto”. Al di là dei pur ampi cenni biografici dei due autori, il governo episcopale di Mons. Zurlo può essere descritto tramite le “relationes ad limina”, che i vescovi erano tenuti ad inviare periodicamente al papa, anche se riguardo a tale fonte la storiografia esercita una certa cautela, data l’eventuale volontà di presentare positivamente al Papa la propria azione di governo della Diocesi. Tuttavia quella del 1759 si mostra la più completa.

Mons. Zurlo ricordava al Papa l’antico splendore della città di Calvi, confrontandola con l’attuale decadenza, rivelando di essere impossibilitato a risalire alle origini storiche della diocesi, nonostante risultano diffuse le indicazioni di una fondazione apostolica. Inoltre rievocava i privilegi e la limitata estensione (Haec vero quam parva sit, ex eo intellegi potest quod eius longitudo vix decimum, latitudo vero vix quartum attingit milliare”). Era ben illustrata la cattedrale dedicata a San Casto e alla Vergine, come anche una precisa e puntuale elencazione del numero dei canonici. Pur essendo convinto di un’opportunità offerta da un sinodo diocesano, il vescovo non lo aveva riunito, preferendo confermare i decreti dei due sinodi precedenti: quello di Mons. Fabio Maranta del 1558 e quello di Vincenzo Maria de Sylva del 1680.

In relazione alla cura delle anime, Mons. Zurlo annotava che tutto procedeva bene. Solo Sparanise sembrava in difficoltà al riguardo: in tutte la diocesi, in ogni caso, i parroci provvedevano personalmente alla predicazione e alla catechesi, grazie anche all’aiuto dei chierici minori. Un’attenzione, però, era necessario porre sui costumi del clero che si mostravano alquanto mediocri, come anche evidenziava nel prosieguo della “relatio ad limina” i vari abusi della popolazione e illustrava le opere messe in atto per correre ai ripari, non escluso il ricorso al braccio secolare (Iis abusibus eliminandis totis viribus incubui meque acerrimum irrogatae praesertim Ecclesiis iniuriae vindicem praebui, imploratio etiam Saecularis Magistratus praesidio). Mons. Zurlo si mostrava particolare attento alla formazione delle giovani leve teatine, la cui formazione, iniziata quale vescovo di Calvi, costituirà la premessa per il suo impegno in tal senso in qualità di Arcivescovo di Napoli, una piazza di assoluta importanza per tale incarico. La relazione si chiudeva con un atto di piena obbedienza alla congregazione romana (la Concistorale), cui era inviata: Vestrum est PP.EE jubere; meum autem, vestra jura capessere. Vestro enim judicio quidquid vobis placuerit facere, et non facere, mutare, et corrigere paratus sum”.

Le indicazioni che ci forniscono gli storici ottocenteschi e le fonti vaticane ci offrono la figura di un vescovo molto religioso, di grande devozione, con una particolare propensione verso la cura e la formazione del clero. Non sfugge, tuttavia, soprattutto nella relatio programmatica del 1759, una certa propensione all’esteriorità. Durante la sua permanenza a Calvi, nonostante le buone intenzioni iniziali e la percezione ben netta di d’imprimere una riforma alla chiesa locale tramite lo strumento sinodale, Capece Zurlo non riuscì a realizzare quelle riforme capaci di modificare lo status della diocesi, pur denunciando alcuni segni di crisi in rapporto ai costumi del clero e agli abusi della popolazione locale, anche alle forme di violenza presenti nella comunità diocesana.

Il vescovo Zurlo fu promosso, nel 1782 arcivescovo di Napoli, sede vacante per la morte di Serafino Filangieri, e nominato cardinale col titolo di S. Bernardo alle Terme. Sull’operato di Capece Zurlo quale arcivescovo di Napoli, nell’Archivio Storico Diocesano di Napoli non rimane molto dell’attività del prelato, ma quel poco che rimane della documentazione ci consente di conoscere le tre visite pastorali del 1783, del 1791 e del 1794, l’erezione della nuova parrocchia di Santa Maria delle Grazie nel 1792, la stesura di un catechismo per i rurali e gli scritti per la formazione del clero. Quest’ultimo operato si relazionava a quanto aveva già fatto nella diocesi di Calvi, ma Napoli ovviamente costituiva una centro di assoluta importanza per la formazione-selezione del clero meridionale.

Nella Biblioteca Nazionale di Napoli sono raccolte quasi tutte le lettere pastorali dei cardinale. Tramite la lettera pastorale l’arcivescovo faceva conoscere al popolo e al clero il suo pensiero. Tesi ricorrenti di tali lettere sono la necessità della penitenza, originata dalla constatazione del peccato, l’indifferenza religiosa del presente in contrasto con i tempi eroici del cristianesimo, la bontà del messaggio evangelico per gli infelici e la speranza della Resurrezione.

In apparenza - scrive Capece Zurlo - “la condizione del malvagio sarebbe preferibile a quella dell’uom da bene”, in un contesto terreno più confacente al vizio e al delitto, ma il cristiano è chiamato a “conformarsi con Gesù Cristo mortificato e Crocifisso, per aver parte col medesimo risorto e glorificato. Il cardinale Zurlo invita i fedeli e non solo a uscire dal suo individualismo e dalla concezione utilitaristica che ha della società, scrivendo testualmente” L’Uomo, per quanto sia di genere liberale, ed onesto, ha non di rado la debolezza di anteporre i suoi anche più picciol’interessi ai più grandi del suo Fratello[…] Le nobilissime disposizioni di spirito non sono ordinate e comuni: la moltitudine senza motivi efficaci di vantaggio privato riguarda un bisogno pubblico con indifferenza”.

Durante il periodo di Arcivescovo di Napoli Giuseppe Maria Capece Zurlo si interessò anche all’Anfiteatro di Calvi, riguardo alla cui ricerca volle dare il suo contributo, chiarire che il nome dato al terreno non aveva alcun collegamento con il Circo tipico rinomato presso i Romani, ma si trattasse di un Anfiteatro dalla forma “ovata” e non “rotonda”. “L’anfiteatro che esiste - scrive Mons. Zurlo - è di forma ovata come sono quasi tutti quelli che dagli antichi furono eretti e da noi diroccati”. A tal riguardo Mons. Zurlo rimprovera “all’ingordo colono” il non rispetto per tali preziose testimonianze storiche dell’Antica Cales, prima di darci le notizie in suo possesso.

Ricordiamo che Mons. Capece Zurlo scriveva tali osservazioni nel 1792: “Si osservano ancora perfettamente i sedili e questi come in somiglianti edifizi si scorge sono in tre parti, cioé nell’ima, nella media e nella somma egregiamente divisi. L’ima, in cui sedevano personaggi d’alto maneggio, era di fabbrica più che magnifica che non erano le altre e, se tra queste si scorge ancora qualche piccola differenza nel lavoro non deve cercar meraviglia sapendosi molto bene che la parte media era in maggior pregio che non era la somma. Inoltre Mons. Zurlo scriveva che nel 1792 si potevano osservare due delle porte “aditus”, ricordando che in passato esse era adornate da due bellissime statue, quella una nobile donna cinta d’arco e faretra che teneva sotto i piedi un animale, che da alcuni era considerato un leone e da altri un cane, riconducibile alla dea Diana, e quella di Marte. Infatti - scrive testualmente Mons. Zurlo - “ambedue erano negli anfiteatri con maggior culto adorati; mentre la dea Diana presedeva, come gli antichi credevano, a quella ludica caccia che con le fiere negli anfiteatri facevansi, il guerriero Marte presedeva alla pugna de’ gladiatori che ivi pur anco attaccavasi.

A tal riguardo Zurlo teneva a precisare che nell’anfiteatro dell’Antica Cales si ricorreva sicuramente alle bestie feroci nel combattimento, dato che “dappresso alla fabbrica vi era ancora il catabulo ove queste fiere si tenevano serrate, anzi mi asseriscono persone degne di fede di aver ritrovato qui dappresso certi sotterranei per li quali si stima che fusse andata l’acqua alle fiere che stavano nel catubulo chiuse”.

Mons. Zurlo riferisce infine di conoscere che nell’anfiteatro dell’Antica Cales erano allora ben visibili diversi frantumi di mosaico che adornavano i sedili dei magistrati maggiori.

Aveva già alle spalle ben diciassette anni come Arcivescovo di Napoli quando Giuseppe Maria Capece Zurlo si trovò, ottantanovenne, a doversi relazionare con il nuovo governo della Repubblica e con una rivoluzione. Nell’esercizio delle sue funzioni, il cardinale Zurlo era allora assistito da Gaetano Vitolo, vescovo titolare di Comana, ma la mancanza di documenti non ci consente di conoscere quali fossero le condizioni della sua salute, in relazione alla capacità di tenere autonomamente le redini del governo curiale che per quanto concerne l’entità di influenza esercitata su di lui dai suoi collaboratori.

Su tale mesi del 1799, che non potevano non coinvolgere in prima persona l’arcivescovo di Napoli, in campo cattolico vi sono ovviamente posizioni storiche diverse su tale periodo di vita di Capece Zurlo. C’è chi ha visto in lui una persona debole che non seppe fronteggiare adeguatamente gli avvenimenti e chi invece ha fatto proprio il documento più importante da lui prodotto: la Pastorale Repubblicana sulla Libertà e sull’Uguaglianza. Bisogna convenire che, data anche l’età e tenendo in considerazione i suoi scritti precedenti, l’Arcivescovo Zurlo abbia solo firmato tale Pastorale e che essa sia stata scritta da Vincenzo Troise. Una conversione così rapida agli ideali repubblicani da parte dell’Arcivescovo di Napoli pone dubbi, anche se il sangue di San Gennaro si era sciolto, segnale che non solo il popolo interpretò come approvazione e condivisione da parte del santo del nuovo governo repubblicano.

In campo laico la figura di Capece Zurlo nella breve esperienza repubblicana è stata ugualmente in varia misura giudicata. Ai sui tempi la Regina Maria Carolina lo definì uno “scimunito”; il che costituirà la premessa per il suo allontanamento da scontare nell’eremo di Montevergine fino alla morte. Dai patrioti repubblicani Zurlo fu considerato il pastore saggio e intelligente, aperto alle idee moderne, forse sottovalutando il suo conflitto interiore. In tale contesto si colloca la famosa lettera pastorale del 13 marzo 1799, La Pastorale Repubblicana dell’Arcivescovo di Napoli Giuseppe Maria Capece Zurlo, che proclamava la necessità di un nuovo ordine in cui la democrazia politica si potesse affermare con i principi basilari di libertà e uguaglianza. Tale Pastorale, se da un lato ebbe ecclesiastici vicini all’arcivescovo, che tramavano per un decisa condanna delle idee repubblicane, dall’altro era attesa da tanti sacerdote che si mostravano più sensibili alle idee di libertà e uguaglianza.

Come scrive lo storico Giuseppe Fonseca: “sarebbe miope e ingiusto non valutare appieno la portata che le idee democratiche hanno avuto anche su ecclesiastici di fede sincera e animati da carità cristiana. Non valutare il sacrificio di chi per questo ha dato anche la vita sarebbe davvero ingeneroso”. Infatti la suddetta Pastorale è impregnata di tali nuovi principi che vengono analizzati e proposti nella forma catechistica tipica dei documenti pastorali. “Per libertà s’intende - è scritto testualmente – il diritto proprio naturale di ogni cittadino, di poter fare tutto ciò che non è vietato dalla legge, diritto in tutto analogo a quello che, come credenti in Gesù Cristo, voi avete in rapporto alla Religione che professate”.

Il testo continua con un invito a far proprio il principio di libertà con tali parole: “Fissatevi questa idea della libertà, voi tosto che vedrete che se per essa voi siete sciolti da ogni giogo di despotismo, di tirannia e di oppressione”. Nel prosieguo il documento pone in risalto come il bene della libertà debba essere coniugato con il rispetto della legge quale contratto tra i cittadini di ogni classe sociale al fine del bene comune.

Bene esplicitato è altresì il concetto di “Uguaglianza” che “abolendosi i titoli vani e fastosi, che con sì grande distanza separavano il ricco dal povero, ogni individuo venga considerato col solo aspetto di uomo della Nazione, e siasi al pari ad ogni altro nel diritto di aspirare agli impieghi co’ suoi talenti e di essere premiato per le sue lodevoli azioni e così fugare interamente la parzialità o le protezioni[…]. “Tutte queste odiose distinzioni, le quali dividevano un tempo gli uomini in questa società, sono annientate dal nuovo Governo; egli vede in ciascun individuo soltanto il titolo essenziale di cittadino, che tutti quanti eguaglia”. Sono pertanto libertà e uguaglianza gli inscindibili nuovi principi della Repubblica Napoletana, che si accordano con il Vangelo, gli stessi principi evangelici.

Dopo la sconfitta della Repubblica, la debolezza di un uomo di 89 anni non avrebbe dovuto destare tanto astio, rancore e interventi, che, invece, ci furono ad iniziare dalla Regina, che aveva più potere decisionale del marito. Infatti, con la lettera del 21 giugno 1799, inviata dalla Regina a Fabrizio Ruffo, iniziava il periodo che avrebbe condotto ad un ingiusto esilio a Montevergine. D’altronde la regina era stata chiara: la cacciata dell’arcivescovo Giuseppe Maria Capece Zurlo era “una delle prime necessarie operazioni” da compiere a restaurazione avvenuta. In base alla decisione della regina Maria Carolina d’Asburgo l’arcivescovo di Napoli Giuseppe Maria Capece rientrava nell’opera di “normalizzazione” da realizzarsi per lui tramite epurazione ed esilio.

Scrive il Trama che “ritornati dopo cinque mesi e poco più i Borboni sul trono di Napoli, quei ministri ostili alla Chiesa e ai suoi Pastori […] gli misero in mala voce il Napolitano Arcivescovo, ed ottennero che venisse strappato all’amore del suo gregge”. Tale scritto del Trama si rivela erroneo in quanto, oltre alla decisione della Regina, aveva influito Pio VI, che aveva dichiarato “sciocco” l’arcivescovo di Napoli in relazione ad un mai accettato, da parte del Papa, atto del cardinale Zurlo: la conduzione del divorzio del duca di Maddaloni. Nella direzione giusta si mostra l’analisi di Carlo De Nicola, che, nel suo Diario, scrive: “La verità è che nel tempo della Repubblica ha mostrato molta debolezza. Si ricorda l’aver autorizzato le armi francesi con l’ordinare il triduo, con l’espressione che il Signore le aveva autorizzate, colla liquefazione estraordinaria del sangue di S. Gennaro. Le pastorali fatte, le cartelle della comunione colla iscrizione “libertà ed uguaglianza”, la lettera circolare con cui autorizzava di essersi il cardinale Ruffo dichiarato Pontefice, e simili cose che gli facevano fare e dire, ch’egli poteva benissimo ricusare di fatto”.

Il 5 agosto 1799, l’Arcivescovo Cardinale Zurlo partì per il suo ritiro in Loreto presso Montevergine insieme a quattro canonici, anche loro condannati all’esilio: il canonico Francesco Rossi, il canonico Vitolo, il canonico Vinaccia e il canonico Ruggiero. Il cardinale Zurlo avrebbe sperimentato la sua condizione di esule nel dicembre 1799, allorché gli fu vietata la partecipazione al conclave per il successore di Pio VII, mentre precedentemente erano iniziate le manovre per la sua successione ad Arcivescovo di Napoli.

Zurlo passò gli ultimi anni nel suo ritiro di Loreto a Montevergine dove morì il 31 dicembre 1801. I funerali furono celebrati a Napoli senza pompa alcuna. Infatti il Diario dei Cerimonieri di Corte riportò in maniera distaccata la notizia della morte di Zurlo, annotando semplicemente che “ai primi di gennaio perviene a Napoli la notizia della morte del card. Capece Zurlo, deceduto e sepolto a Loreto di Montevergine”. Solo nel 1806 al ritorno dei Francesi nel Regno, la salma del Cardinale fu trasportata nel duomo con solenni onoranze.

Come scrive Ulderico Parente, “nel clima confuso ed esaltante per tanti aspetti della rivoluzione partenopea, Giuseppe Maria Capece Zurlo sembrava scontare l’appartenenza di fatto ad un’epoca passata, contro la quale si abbattevano le ondate della rivoluzione e del pensiero moderno. Nella sua vicenda[…] si esprime il travaglio di quel momento fondamentale di passaggio tra il XVIII e il XIX secolo”.

Bibliografia:
Antonio Trama - Cenno Storico sul Cardinale Giuseppe Maria Capece Zurlo Arcivescovo di Napoli in “La Scienza e la Fede” - 1861

Osservazioni del Barone Ricca sull’antica Calvi sulle risposte del signor Zona - parte II, Fernandes – Napoli - 1835 in AAVV - Il cittadino ecclesiastico - Vivarium - Napoli 2000

Carlo De Nicola - Diario in AAVV - Il cittadino ecclesiastico – Vivarium - Napoli 2000

Giuseppe Maria Capece Zurlo - Notizie istoriche intorno alle città di Calvi e Sparanise - Cap. X “Del Circo e dell’Anfiteatro di Calvi” - 1792

Giuseppe Fonseca - Il governo delle diocesi meridionali tra Regno e Repubblica - Istituto Italiano per gli Studi filosofici - 2000

AAVV - Il cittadino ecclesiastico – Vivarium – Napoli - 2000

 

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