Calvi Risorta: come nasce la scoperta della discarica più grande
d’Europa. Intervista a Salvatore Minieri
Agoravox,
18 giugno 2015
Sergio
Nazzaro
Intervistarsi tra giornalisti è pratica da evitare. Diventa
autocelebrazione, ma qualche volta è necessario farlo. In questi giorni
assistiamo all’esplosione mediatica della (probabile) discarica più grande
d’Europa, ovvero l’area ex Pozzi di Calvi Risorta in provincia di Caserta.
Sui grandi giornali nazionali si rincorre la dicitura “una storia raccolta da
giornalisti locali”. Come sempre succede, se una storia la segue un giornalista
sul e del posto, il giornalismo è locale, non necessita di nome e cognome. Si
consegna il giornalista locale all’oblio finché non giungono i grandi media ad
affermare la presenza della storia da raccontare, a dare un proprio nome e
cognome, solitamente di quello che giunge "dopo che ha capito",
"dopo che scrive", "dopo che", insomma, vive nel "dopo
sempre e comunque", ma si intesta tutto prima di tutti. Ebbene il
giornalista locale è Salvatore Minieri, ed è corretto per una volta raccontare
la genesi di un reportage, perché se è autocelebrativo
intervistarsi tra colleghi, è anche diseducativo che i giornalisti si
dimenticano di citare i loro colleghi nel riportare una storia non loro, ma che
hanno acquisto "solo dopo". Minieri ha raccontato la storia della ex
Pozzi oltre un anno fa. Un documentario pubblicato in rete che diventa il punto
da cui parte l’inchiesta. Minieri oggi continua a raccontare la storia della ex
Pozzi e continua a documentare quello che sta succedendo. Questa intervista
cerca di ricostruire nel merito una storia. Non si può più sopportare che il
giornalismo sia fatto in poltrone comode e di poi si sfrutti il lavoro di chi
invece svolge la propria professione consumando le suole delle scarpe. E questa
storia dimostra che non tutto è stato detto sulla Terra dei Fuochi e non tutto
è stato scoperto, ancora.
Come è nata la tua inchiesta sull'area Ex Pozzi, come hai intuito che
poteva esserci una storia da raccontare? «Più che un’inchiesta, questa è la storia di una leggenda bisbigliata e,
per viltà congenita di questa terra, mai urlata. Come nei racconti di
Anton Čechov, la gente si è comportata al pari di un oscuro e
arretrato villaggio ottocentesco: tutti sanno, ma guai a chi denuncia. Dei
rifiuti scaricati nella zona della Pozzi, sento parlare da quando ero
ragazzino, dall’inizio degli anni ’80. Ho nella testa ancora le parole di
anziani operai che avevano prestato servizio in quell’area industriale: era una
continua litania fatta di segreti inconfessabili, di ombre notturne che
scaricavano fluidi orribili in una delle terre più fertili della Campania.
Qualche anno fa, precisamente nel 2011, con il collega Tony De Angelis e con
l’editore Vito Taffuri, iniziammo a studiare alcune
vecchie foto aeree, scattate proprio sulla zona Pozzi. Si notava, di fianco al
grande opificio, una splendida vallata, digradante verso un torrente, nel pieno
di una pianura quasi del tutto coltivata e rigogliosa. Era, se non ricordo
male, una foto del 1969. Nel 2011, appunto, con un drone
abbiamo sorvolato la stessa area, scoprendo che sulla vallata fotografata nel
1969 erano sorte delle strane collinette, coperte da vegetazione anomala.
Lasciammo stare, a causa di altri impegni professionali e scadenze editoriali,
ma rimanemmo convinti di dover lavorare sul quella labile traccia visiva. L’anno
scorso, dopo aver effettuato alcuni sopralluoghi in troupe, abbiamo deciso di
ricontrollare la zona e di scavare a una profondità di 50 centimetri in alcuni
punti del terreno. La terra che abbiamo trovato in quell’occasione era di ogni
colore più innaturale: dall’azzurro, all’arancione, fino a tutte le tonalità
del verde acido. Plastica, bottiglie, grandi buste maleodoranti infilate in
vari strati di terriccio e poi polveri colorate e strani livelli di terra nera
e melmosa. Fu questo il “bottino” immortalato dalla nostra telecamera. In 35
minuti, quelle immagini finirono in rete e ci fu un’esplosione di contatti e
visualizzazioni. Da quel momento è partita una scalata inarrestabile per
squarciare il velo di omertà e paura sulla zona ex Pozzi. Quando ho dovuto
tagliare - non senza difficoltà umane, sacrifici e diffidenza da parte di tutti
- un muro di gomma e silenzio per raccontare i fatti, sono iniziati i miei sospetti.
Tutti zitti sulla zona Pozzi, pur bisbigliando negli angoli nascosti
dell’esistenza di una discarica».
Come si è giunti agli scavi del corpo forestale? «La Procura di Santa Maria Capua Vetere
ha acquisito il video del nostro reportage e, in tempi straordinariamente
brevi, ha deciso di intercludere e porre sotto sequestro tutta l’area Pozzi-Iplave. Grazie al grande spirito di sacrificio e
all’altissimo senso del dovere della Forestale, coordinata in queste operazioni
dal Comandante Vincenzo Gatta, i nostri sospetti si sono tramutati subito in
realtà. Già all’inizio delle operazioni di semplice pulizia della zona, è
spuntato un fusto, occultato nel primo stato di vegetazione. Lo scavo
sistematico, eseguito sotto il controllo costante del generale Sergio Costa, ha
confermato i nostri timori: dove una volta c’era una valle silenziosa e pura, è
stato intombato un inferno di scarti tossici tra i
più grandi d’Europa, con la sua estensione di oltre 25 ettari».
Che cosa è il giornalismo locale, secondo te? «La locuzione “giornalismo locale” è un rutto di
pigrizia, uno sbadiglio concettuale dei pantofolai della tastiera che in questa
terra pascolano tra redazioni, sezioni di partito e feste esclusive, quasi
sempre organizzate da politici paganti. C’è un libro bellissimo di Stefano
Bartezzaghi, “Non se ne può più” che chiarisce lo status mentale di questi
cronisti perennemente assopiti: “Da dieci anni, certo giornalismo è fermo alla
locuzione 'bomba d’acqua' e in quel pantano affoga ogni dignità della
professione”. Meraviglioso. Capisco gli orizzonti limitati di alcuni cronisti:
per loro è difficile scrivere che io e i miei colleghi siamo giornalisti che
vivono e studiano questa terra con sacrifici e impegno e allora risulta più
comodo scrivere “giornalisti locali”, al pari di un prodotto tipico, di quelli
che si trovano negli Autogrill. Non nascondo il mio timore, però. Credo che
dietro la locuzione “giornalisti locali” possa ribollire una malcelata manovra
per sminuire, offendere con armi grossolane. Il perché? Semplice come il modo
di pensare di questi Pulitzer in panciolle: conosciamo colleghi che da anni
scrivono per testate anche importanti, assolutamente distanti da quel concetto
chiamato inchiesta. Nei confronti miei e dei colleghi che mi hanno aiutato sul
reportage Pozzi, poi, è nato un cordone sanitario, una corsa a cancellare nomi
e identità. In alcuni casi si tratta di colleghi appartenenti allo stesso
gruppo amicale o, peggio ancora, a qualche gruppo di “impegno civile” aglio e
olio. Roba da comari sotto un portone di provincia. Per quanto ci riguarda, il
giornalismo è militante e impolverato, spesso impastato di sudore e rospi acidi
da inghiottire. Che ne può sapere uno che scrive “giornalista locale”
dell’amarezza di dover vivere spalla a spalla nella stessa città con camorristi
dei quali si denunciano le malefatte ogni giorno?».
Hai trovato diffidenza verso questa tua inchiesta, o peggio accuse di
manipolare la realtà? «Diffidenza è
un eufemismo. Ho scritto stamattina di essermi trovato ad agosto, con 40 gradi
e l’aria resa irrespirabile dai rifiuti, nell’area ex Pozzi con la collega
della Rai, Stefania Battistini, per un reportage
sulla Terra dei Fuochi: provavo a contattare altri colleghi e qualche
amministratore via cellulare, ma tutti rispondevano di essere al mare e
dicevano di non preoccuparmi perché nella Pozzi, in fondo, non si sarebbe mai
trovato nulla. “Ma vattene in ferie, tu hai la fissazione con questi rifiuti”,
mi dicevano. Ecco, forse è proprio in questa cialtroneria collettiva che nasce
la possibilità di spadroneggiare della camorra e delle ecomafie che qui, come
ormai tutti quelli sdraiati al mare ad agosto scorso hanno capito, hanno creato
una Chernobyl campana. Sulla manipolazione della realtà, avrei tanto da dire.
Ci sono politici che oggi fanno i maratoneti per prendersi i meriti della
scoperta del disastro Pozzi e scattano davanti alle telecamere per cianciare
del loro senso di “orrore e scandalo” davanti ai rifiuti intombati.
Sono gli stessi che non hanno detto una parola, non hanno scritto un solo
comunicato, e nemmeno commentato sui social, quando il Governo ha scippato
circa 10 milioni di euro alla bonifica della Terra dei Fuochi per darli
all’Expo di Milano e alla sicurezza della manifestazione (le abbiamo viste
tutti le immagini dei Black Bloc
che devastavano la città con una facilità da fanciulli in gita). Se questa non
è manipolazione della realtà, ditemelo voi».
Ti sorprende che sia la più grande discarica d'Italia? «No, lo sapevo, lo immaginavo. Studiando le immagini
zenitali che il drone ci trasmetteva sull’ipad (strumentazione che ogni giornalista avrebbe potuto
usare), avevamo notato l’estensione delle collinette anomale. Quella, lo
dicevamo da quattro anni, sarebbe stata la più grande discarica abusiva
d’Italia. Ci sbagliavamo, è la più grande d’Europa e, lasciatemelo dire, la più
“internazionale”. Negli strati di intombamento si
parlano tutte le lingue europee, a leggere le etichette sui sacchetti. Dalla
Francia alla Spagna, passando per tutte le città italiane che hanno rifornito
il polo industriale Pozzi. I sacchetti e i fusti francesi mi spaventano più di
tutti: si tratta di materiale di una società che avrebbe collaborato anche con
una centrale nucleare. Un intreccio che molti politici non riuscirebbero a
capire nemmeno con 5 anni di corsi intensivi. E’ questo il mio timore: siamo
governati da protagonisti di un’operetta tragica, totalmente scollati dalla
realtà delle cose. Personaggi in cravatta e vestiti su misura che ancora
blaterano di amore per il territorio. Questo amore tanto decantato,
evidentemente, non esisteva nei tre decenni di sversamento
alla Pozzi».
Che cosa succederà ora, ci sarà una bonifica, una messa in sicurezza? «Non credo a una bonifica immediata, anzi, ho il
sospetto che le procedure saranno lunghe e complesse. Io posso solo fare
appello a tutti i cittadini, un invito ad essere presenti e a far parte di un
programma di cittadinanza attiva degno di questo nome. Io sono ottimista per
natura, ma so bene di vivere in una società che mi ricorda, ogni giorno di più,
un episodio narrato da Stefano Benni. “C’è gente che litiga violentemente per
un parcheggio al mare o al centro commerciale, manco fosse l’ultima polla
d’acqua potabile nel Maghreb”. Diciamoci la verità,
noi litighiamo per molto meno, siamo diventati peggio dei protagonisti
bislacchi di Benni. Il nostro contenitore è un centro commerciale o la spiaggia
esclusiva da raggiungere in SUV. A noi non interessa la prova reattiva sui
rifiuti tossici sotto casa nostra, ma solo la prova costume. Siamo polli in
batteria. Altro che battaglie civili. La camorra, al solito e per molti anni
ancora, ringrazierà e farà ciò che vuole».
Visita www.CalviRisorta.com