La CALES ROMANA: sintesi storica, testimonianze e cose notevoli della città

Comune di Pignataro, 07 febbraio 2014

Angelo Martino/Giuseppe D’Auria

Collocata ai piedi delle montagne che seguono verso nord il limite della pianura campana, l’antica Cales fu un importante luogo strategico per il controllo delle vie di accesso dalla Campania al Lazio e al Sannio. Il sito, nel territorio dell’attuale Calvi Risorta, già frequentato in età preistorica (almeno fin dall’Eneolitico), a partire dall’Età del Ferro divenne sede di un insediamento con caratteri urbani attestati dall’VIII secolo a.C. da aree di necropoli e da capanne circolari del VII-VI secolo a.C. Si è ipotizzato che la fase più antica delle mura risalga al V secolo a.C. con opere di canalizzazione e bonifica.

Nel 336 a.C. Tito Livio (Ab Urbe condita - VIII, 16) ci testimonia della guerra combattuta dai Romani contro gli Ausoni, un popolo che abitava la città di Cales: “Insequens annus, L. Papirio Crasso K. Duillio consulibus, Ausonum magis novo quam magno bello fuit insignis. ea gens Cales urbem incolebat.” (L’anno successivo, durante il consolato di Lucio Papirio Crasso e Cesone Duilio, si segnala per una guerra, combattuta con gli Ausoni, un popolo che abitava la citta di Cales).

Tito Livio, principale fonte di informazioni sul conflitto tra Cales e Roma (Ab Urbe condita - VIII-16) ci narra ancora che “essi avevano unito le proprie forze con quelle dei Sidicini; ma siccome l’esercito delle due genti era stato sconfitto in un’unica battaglia tutt’altro che memorabile, a causa delle vicinanze delle rispettive città fu tanto pronta alla fuga quanto sicuro fu il rifugio trovato nella fuga stessa” (“Sidicinis finitimis arma conxiuerat; unoque proelio haud haud sane memorabili duorom populorom exercitus fusus propinquate urbium et at fugam ipsa tutior fuit).

Quando Marco Fabio, cavaliere dell’esercito romano, fu catturato dagli Ausoni, fu condotto in catene nella cittadina fortificata di Cales ove rimase prigioniero per breve periodo di tempo.

Il senato romano affidò allora al condottiero Marco Valerio Corvo, il più grande ed autorevole comandante dell’epoca (ut maximum ea tempestate imperatorem), il comando supremo dell’esercito per dirigersi a Cales ove era scoppiata di nuovo la ribellione (unde bellum ortum erat), mettendo in fuga i nemici che non si erano ancora ripresi dalla precedente battaglia.

Tito Livio scrive che “le legioni romane arrivarono di fronte alla capitale degli Ausoni, Cales, e cominciò l’assedio” (moenia ipsa oppugnare est adgressus). Per prima cosa i romani ripulirono il terreno intorno all’area, circondarono la città e l’ardore dei soldati romani si mostrava talmente incontenibile da sospingerli ad assaltare le mura nemiche con le scale. (et militum quidem is erat ardor ut iam inde cum scalis succedere ad muros vellent evasurosque contenderent).

Poiché l’impresa era ardua, il comandante Marco Valerio Corvo preferì portare a compimento il suo piano puntando sul lavoro dei soldati in modo da salvaguardare la loro incolumità (Corvus, quia id arduum factu erat, labore militum potius quam periculo peragere inceptum voluit). Decise così di costruire rampe che partivano dall’accampamento romano e gradualmente si avvicinavano alle mura. Le rampe erano fatte di tronchi d’albero e di terra che permettevano di raggiungere la sommità delle mura di cinta. Da qui i romani potevano scatenare un attacco massiccio contro la città.

Durante la costruzione delle rampe i legionari piazzavano delle catapulte tutt’intorno per impedire ai nemici di salire in cima alle mura e difenderle. Ma per una fortunosa circostanza l’impiego di questo armamentario non fu necessario.
Infatti Marco Fabio, prigioniero nelle galere calene, sfruttando la disattenzione delle guardie in un giorno di festa, si liberò dalle catene e, con una fune legata a un bastione del muro, si calò lungo il muro stesso fino alle strutture d’assedio erette dai romani e convinse il generale ad attaccare i nemici frastornati dal vino e dai banchetti (namque M. Fabius, captiuus Romanus, cum per neglegentiam custodum festo die uinculis ruptis per murum inter opera Romanorum, religata ad pinnam muri reste suspensus, manibus se demisisset, perpulit imperatorem ut uino epulisque sopitos hostes adgrederetur).

Gli Ausoni e la loro capitale furono sopraffatti con uno sforzo non più arduo di quello impiegato per sconfiggerli in battaglia. Il bottino ottenuto risultò essere ingente e, posto un presidio a Cales, le legioni furono ricondotte a Roma (praeda capta ingens est praesidioque imposito Calibus reductae Romam legiones).

Per questo successo il Senato decretò il meritato trionfo a Marco Valerio Corvo (consul ex senatus consulto triumphauit). Il trionfo nella Roma antica rappresentava il massimo onore tributato con una cerimonia solenne al generale che avesse conseguito un’importante vittoria.

Furono i consoli Tito Veturio e Spurio Postumio ad essere incaricati di portare a termine la guerra contro i Sidicini, anticipando i desideri del popolo e per rendere un servizio ai plebei, presentarono la proposta di insediare una colonia a Cales (de colonia deducenda Cales rettulerunt). Per questa iniziativa, il Senato decise di inviare 2500 uomini ed elesse un triumvirato formato da Cesone Duilio, Tito Quinzio e Marco Fabio con il compito di fondare il possedimento e di assegnare la terra (factoque senatus consulto ut duo milia quingenti homines eo scriberentur, tres uiros coloniae deducendae agroque diuidundo creauerunt K. Duillium T. Quinctium M. Fabium).

Durante la terza guerra sannitica (298-290 a.C.), il suo territorio fu devastato (Tito Livio, X, 29); la città fu poi scelta come sede di una delle quattro questure decretate dal Senato Romano nel 267 a. C. e a quel periodo risale la coniazione delle monete con legenda Caleno.

La città fu nuovamente devastata ad opera di Annibale durante la seconda guerra punica (Tito Livio, XXII, 13); nel corso della stessa guerra, nel 209 a.C, fu una delle dodici colonie che si rifiutò di fornire aiuti a Roma (Tito Livio, XXVII, 9, 10): “Erano allora trenta le colonie del popolo romano. Dodici di queste, avendo tutte i loro ambasciatori a Roma, negarono ai consoli di poter dare né soldati né denaro. Furono queste Ardea, Nepete, Sutrio, Alba, Carseole, Cora, Suessa, Circello, Sezia, Cales, Narnia, Interamna (Triginta tum coloniae populi romani erant; ex iis duodecim, cum omnia legationes Romae essent, negaverunt consulibus esse unde milites pecuniamque darent. Eae fuere Ardea, Nepete, Sutrium, Alba, Carseoli, Sora, Suessa, Circeii, Setia, Cales Narnia, Interamna).

Per questo motivo Cales fu punita cinque anni dopo, con l’imposizione di pesanti tributi e la perdita della relativa autonomia di cui aveva goduto (Tito Livio, XXIX, 15, 37): “Decretarono che i consoli chiamassero a Roma i magistrati e dieci dei principali cittadini di Ardea, Nepete, Sutrio, Alba, Carseole, Cora, Suessa, Circello, Sezia, Cales, Narnia, Interamna[…] comandassero loro che ciascuna desse duplicato il numero di quel più di soldati, che avevano dato al popolo romano dal giorno che il nemico avesse posto piede in Italia, nonché centoventi cavalieri (decreverunt ut consules magistratus denosque principes Ardea, Nepete, Sutrium, Alba, Carseoli, Sora, Suessa, Circeii, Setia, Cales Narnia, Interamna[…] Romam excirent; iis impararent quantum quaeque earum coloniarum militum plurimo dedisset populo Romano ex quos hostes in Italia essent, duplicatum eius summae numerum peditum daret et equites centenos vicenos).

Nel Foro di Cales, furono inoltre messi a morte i maggiorenti di Capua, rei della defezione ad Annibale della loro città.
Quella che fu l’antica Cales degli Ausoni, nel 344 a.C. con il nuovo status di colonia latina, venne a perdere alcune delle tradizionali prerogative di città libera. Tuttavia essa ricevette dai Romani un trattamento di riguardo. Collocata in una posizione strategicamente rilevante e dominante l’intera pianura campana, baluardo fondamentale per la difesa e il controllo della via Latina, Cales costituì la testa di ponte dell’espansione romana nei territori dei Sanniti.

La presenza di già rilevanti strutture difensive, la sua forte posizione naturale e la vicinanza di alcuni corsi d’acqua concorrevano a rendere Cales adatta a sostenere lunghi assedi. Anche per questo la colonia latina di Cales conservò notevoli autonomie e giurisdizionali, esercitate tramite propri magistrati (pretori, duoviri e successivamente quatorviri).

Ebbe, inoltre, un proprio Senatus e due Censores. Inoltre, in relazione alla religione, fu concessa agli abitanti di Cales piena e libera facoltà di culto. Anche l’attività commerciale fu incoraggiata e ai Caleni fu consentito di poter acquistare suoli e immobili in territorio di Roma, come analogamente potevano fare i Romani nel territorio di Cales. Gli esponenti della classe patrizia potevano prendere la cittadinanza romana, senza avere l’obbligo di residenza. Fu solo alcuni dopo alcuni anni che la città di Cales fu scelta come sede di una delle quattro questure decretate dal Senato Romano nel 267 a.C. e a quel periodo risale la coniazione delle monete con legenda Caleno. Gli scrittori classici ci forniscono notizie del Questore di Cales. Facciamo riferimento in particolare a quanto scrive Marco Tullio Cicerone in relazione ad un certo Vatinio, come riporta anche lo storico locale Mattia Zona. Invece Tacito, il grande storico latino, nel IV libro degli Annales, fa esplicito riferimento al Questore Curzio Lupo che, muovendosi da Cales, riuscì a bloccare la sedizione di schiavi che stava divampando a Brindisi (…et erat iisdem regionibus Curtius Lupus, cui provincia vetere ex more Cales evenerat…)

Dovettero passare molti anni prima che Cales venisse innalzata al rango di Municipio. Giuseppe Carcaiso ipotizza che ciò “sia avvenuto all’indomani della guerra sociale, fra l’83 e l’81 a.C., allorché Silla pose mano ad un profondo processo di riordinamento politico-amministrativo della Repubblica Romana”. Secondo Mattia Zona, invece, “Cales era già Municipio molto tempo prima della guerra sociale”. La testimonianza letteraria più bella del Municipio Caleno è costituita dalla lettera di Marco Tullio Cicerone a Dolabella (Ad Familiares, IX, 13) per perorare la sorte di Caio Suberino Caleno e di Marco Sterede, due cittadini caleni rimasti intrappolati in Spagna a causa della guerra civile. Della lunga lettera citiamo il paragrafo in cui si fa riferimento al Municipio di Cales: […] Perciò ti prego di adoperarti affinché questi due miseri Caleni, non per colpa loro, ma a causa della sfortuna alla quale ogni uomo soggiace, non ricevano alcun danno. In modo che io per mezzo tuo faccia loro questo favore e possa soddisfare il desiderio del Municipio caleno col quale sono in stretti rapporti di amicizie[…].

In effetti Marco Tullio Cicerone ebbe una predilezione particolare per Cales, ove soggiornava spesso e di cui si considerava l’autorevole patrono.


LA MONETAZIONE AUTONOMA

La città coniò monete per più di un sessantennio, un arco di tempo compreso tra il 268 a.C. e il 218/202 a.C., quei sedici anni in cui si svolsero gli eventi bellici della Seconda guerra punica. Dopo quest'ultima, a Cales non fu più consentito di battere moneta propria, a favore della monetazione romana. In realtà i caratteri nazionali erano già stati sostituiti con la leggenda latina, poiché Roma stava estendo anche nel Meridione la sua lingua. Purtroppo, attualmente, i numismatici non possono disporre di un testo appositamente dedicato alla monetazione calena per dare il via a una ricerca più proficua. J.H. Eckhel, numismatico settecentesco, nella sua Doctrina numorum veterum, tendeva comunque a considerare le monete emesse a Cales all'interno dell'ampia monetazione greca, prodotte appunto nei vicini territori influenzati dalla cultura ellenica della Magna Grecia.

L'antica Cales batté monete in argento e in bronzo, il cui studio non può in alcun modo prescindere dal confronto con la produzione monetaria che, nel III secolo a.C., caratterizzò tutte quelle colonie e i centri alleati di Roma. All'interno delle monete bronzee, a sua volta, si differenziano tre gruppi, troviamo così monete su cui venivano battuti diversi caratteri, tratti principalmente dalle simbologie del pantheon greco-romano: c'erano così quelle con l'effige di Atena Pallade e il gallo; quelle con la faccia di Apollo e il toro antropoprosopo, tavolta sovrastato dalla lira o da una stella; e quelle in cui, sopra al toro dal volto umano, veniva incisa una Nike alata che lo incoronava. La tipologia in cui troviamo l'Apollo in compagnia del toro antropoprosopo è identica a quella adottata per la coniazione delle monete dell'antica Neapolis (Napoli), mentre di chiaro stampo romano sono quelle monete che raffigurano la dea Atena.

Uno studio dettagliato sulla storia della moneta emessa nell'antica Cales è stato compiuto da Silvia Pantuliano, dell'Istituto Italiano di Numismatica, la quale nel PDF facilmente reperibile in rete, dal titolo “La monetazione della colonia latina di Cales”, si riallaccia al lavoro più significativo compiuto sull'argomento, si tratta di “Les monnaies antiques de l'Italie” di A. Sambon, pubblicato nel 1903, a cui, sebbene risultino ancora validi i punti di riferimento, mancano ricerche più recenti e aggiornate. L'autrice presenta questo suo scritto come un'introduzione propedeutica a una ricerca più dettagliata, attualmente ancora in corso d'opera, che darà vita a un volume organico, con lo scopo di trovare vasta diffusione nel mondo accademico e presso il grande pubblico.

"Della monetazione calena molto si è detto ma altro occorre dire, sia per andare oltre l'arido schema che se ne dà nelle trattazioni scientifiche, sia per chiarire possibilmente il significato discusso e controverso di qualche tipo e di qualche simbolo alquanto oscuri, sia per riprendere delle varie inesattezze – di cui alcuna gravissima – gli storici locali; i quali, con la guida di non sempre accreditati autori, abbastanza si diffusero intorno alla moneta di Cales" scrive Nicola Borrelli in La moneta nell'antica Cales. Quest'ultimo ci fornisce qualche interessante informazione circa gli studi compiuti sull'etnico monetario: CALENO sarebbe l'abbreviazione del genitivo plurale CALENO(RUM), sebbene altri numismatici abbiano visto in esso un dativo (Caleno populo), oppure quanto resta di una forma antiquata, Calenom, termine del latino arcaico, con una chiara reminescenza del greco ΚΑΛΕΝΩN.


GLI UOMINI ILLUSTRI: I VINICI e FUFIO QUINTO CALENO

Il senatore Vinicio Marco Juniore apparteneva ad una delle famiglie più prestigiose di Cales. Era nipote di Vinicio Marco Seniore (Cales, 50 a.C. circa – dopo il 3 d.C.), il console amico di Augusto, che aveva condotto guerre vittoriose contro i Germani e pertanto apprezzato ed onorato a Roma. Il primo storico latino che ci dona testimonianza di Vinicio Marco Juniore è Tacito, facendo riferimento a Marco Vinicio, figlio del console Publio e nipote del celebre Marco Seniore, scrive nel capitolo 15 del VI libro degli Annales: “Vinicius, oppidam genius, Calibus ortus, Patre atque Avo consularibus, cetera, equestri familia. Erat mitis ingenio et comptae facundiae[…] Anche Dione Cassio fa riferimento a Vinicio Marco Juniore, scrivendo che proveniva da “una famiglia illustre per due consolati”.

In effetti la carriera di Vinicio Juniore era iniziata con la sua elezione a console nel 30 d.C. Negli stessi anni aveva sposato Giulia Lavilla, una delle tre sorelle del futuro imperatore Caligola. Sotto l’impero di Claudio, Marco Vinicio Juniore fu eletto console per la seconda volta, precisamente nel 45 d.C. e dopo qualche anno fu nominato senatore. Quella di Vinicio Juniore la si può definire una vita politica tranquilla in quanto non aveva partecipato ad alcuna rilevante impresa militare. Tuttavia egli si trovò ad esercitare il suo ruolo di console e di senatore negli anni degli intrighi di Palazzo a Roma e gli fu fatale la presenza della maggiore protagonista di quegli intrighi di Palazzo, Messalina.

Tale donna dissoluta si era invaghita di Vinicio, ma Vinicio non intese corrispondere a tale attrazione, soprattutto per non inficiare i suoi rapporti con la corte o, come scrive Giuseppe Carcaiso, “semplicemente perché provava un effettivo disinteresse per la stagionata playlady”. Messalina non poté sopportare il rifiuto di Marco Vinicio Juniore e lo avvelenò “ai tempi di Nerone”. Nelle Dissertazioni sull’Antica Cales, scritte dal canonico pignatarese Giovanni Penna, usando lo pseudonimo di Mario Pagano, le motivazioni dell’avvelenamento di Vinicio da parte di Messalina si rivelano più convincenti. Giovanni Penna, che, ripetiamo, scrive tali dissertazioni usando il nome amato di uno dei più grandi martiri della Repubblica Napoletano del 1799, Mario Pagano, sostiene che all’avvelenamento di Vinicio Marco Seniore “non dovette essere estraneo anche il suo rifiuto a partecipare al complotto contro Nerone, ordito dalla stessa Messalina”. Tale riflessione e motivazione sembra anche a noi molto probabile.

Fufio Quinto Caleno fu il personaggio più rilevante che espresse l’antica città di Cales. Appartenente ad una delle migliori famiglie di Cales, nacque tra la fine del II secolo e gli inizi del I secolo a.C. Nella sua carriera sarà determinante il determinante ruolo ricoperto nello scandalo della solenne cerimonia religiosa, il Damnium, in quanto con la sua eloquenza riuscì a salvare la carriera stessa di Giulio Cesare, suo intimo amico.

In effetti successe che nel 62 a.C. Publio Clodio Pulcro, agitatore politico dell'ultima età repubblicana, si era introdotto abusivamente in casa di Giulio Cesare travestendosi da donna per sedurne la moglie Pompea durante la festa della dea Bona, da cui erano esclusi gli uomini. In seguito a tale profanazione, seguì una grave crisi politica. Era il momento giusto che attendevano gli accaniti avversari di Caio Giulio Cesare, soprattutto Catone e Cicerone nel tentativo di fermarne la carriera.

«Publio Clodio, figlio di Appio, è stato colto in casa di Gaio Cesare mentre si compiva il sacrificio rituale per il popolo, in abito da donna, ed è riuscito a fuggire via solo per l'aiuto di una servetta; grave scandalo; sono sicuro che anche tu ne sarai indignato». scriveva Cicerone ad Attico.

Con determinazione gli avversare di Cesare riuscirono a portare la questione davanti al Senato e fu in tale occasione che Fufio Quinto Caleno dovette far leva su tutta la sua abilità politica ed oratoria. Per il sacrilegio gli oppositori di Cesare chiesero una commissione senatoriale che facesse piena luce su quanto era accaduto, i cui membri dovevano essere scelti a discrezione da un Presidente, nominato dai Senatori stessi. In tal caso gli avversari di Cesare godevano in Senato di una larga maggioranza. Fu allora che Fufio Quinto Caleno contestò con forza tale decisione con impeccabili capacità dialettiche ed oratorie, riuscendo a far sì che i componenti della Commissione fossero estratti a sorte. La fortuna arrise a Cesare e al suo eloquente amico Fufio Quinto Caleno. Tuttavia nel processo che seguì, citato come testimone, Caio Giulio Cesare, come è noto, rifiutò di deporre contro Clodio e si dichiarò convinto dell'innocenza della moglie. Quando i giudici gli chiesero perché avesse allora chiesto il divorzio, rispose con la famosa frase divenuta proverbiale: "La moglie di Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto".

Dopo tale vicenda Fufio Quinto Caleno si recò in Gallia al seguito di Giulio Cesare, mettendosi in luce quale brillante ufficiale. Nel 49 a.C. fu in Spagna al comando di quattro legioni romane. Combatté strenuamente anche durante la guerra civile che oppose Pompeo a Cesare, prima di essere inviato da Cesare nel Peleponneso. Fece ritorno a Roma nel 47 a.C. e fu nominato console. Nella scena politica romana, dopo l’uccisione di Cesare, Fufio Quinto Caleno si schierò con Antonio e tenne la Gallia come suo proconsole dopo la famosa battaglia di Filippi. Morì in Gallia nel 40 a.C. e, dopo la sua morte, le sue 11 legioni, passarono dalla parte di Ottaviano.

L’elogio più bello di Fufio Quinto Caleno fu proprio del suo avversario Marco Tullio Cicerone, che nella filippica contro Dolabella, riferendosi all’ex tribuno di Cales, ebbe ad affermare che “spesso si era trovato in contrasto nel Senato con le cause propugnate da Caleno, ma non aveva mai messo in discussione l’uomo, di cui conosceva il valore e la dirittura morale”.


IL TEATRO, L’ANFITEATRO, LE TERME

In età imperiale, Cales ebbe due edifici per spettacoli: il Teatro per le rappresentazioni sceniche e l’Anfiteatro per i combattimenti tra gladiatori. Consideriamo che in età imperiale la città di Cales acquistò un suo particolare prestigio, anche in relazione al fatto che alcune famiglie locali, tra cui i Vitrasii e i Vinicii rivestirono importanti incarichi pubbliche, un prestigio che a Cales si rifletteva in atti di cosiddetto evergetismo col finanziamento di importanti opere pubbliche. In particolare Marcus Vinicius fu due volte console e intimo dell’imperatore Augusto.

Il teatro di Cales sorge nella zona mediana della città antica, in prossimità del limite occidentale delle mura e a poca distanza dal Foro. Gli scavi hanno portato alla quasi completa messa in luce del monumento che si dispone in uno spazio quadrangolare tra un asse viario a sud e la terrazza di un’area sacra a nord. Le coordinate geografiche del teatro di Cales sono latitudine 41° 11’ 59.91”; longitudine 14’ 7’55.48”. Inoltre la struttura del teatro si pone tra un asse viario, diramazione del cardo maximus, che prosegue a sud e a nord di un muro di contenimento in opus incertum della terrazza che ospitava sin da età arcaica la suddetta area sacra.

Il primo impianto, datato alla prima metà del secondo secolo A.C. è documentato non solo dai resti murati in opus incertum, già individuati nel corridoio di accesso alla scena, ma anche dalle tracce, all’interno dell’orchestra, di una gradinata più antica, a sua volta obliterata da un bacino monumentale di età augustea. Disposto in parallelo, accostato al proscenio e occupante l’intera larghezza dell’orchestra, ossia lo spazio tra le gradinate e il palcoscenico, esso dava all’edifico l’aspetto di un ninfeo, con un prospetto ornato da semicolonne.

La cavea, ossia l’insieme delle gradinate, attualmente visibile, fu costruita nel I secolo a.C. in opus quasi reticulatum, ossia con una tecnica muraria con conci di pietra o terracotta a superficie esterna, disposti in maniera da formare una rete di rombi, con nucleo interno della struttura in opera cementizia.

Il proscenio si mostra ornato di nicchie semicircolari e quadrangolari in ordine alterno con la una scena frontale, in relazione alla sua costruzione è da ritenere che una prima struttura sia stata realizzata con dimensioni modeste nel corso del I secolo d.C.

Successivamente, nel corso del I secolo d.C. l’orchestra e l'edificio scenico, in particolare, subirono modifiche e rifacimenti in riferimento all'innalzamento del livello e del piano pavimentale dell’orchestra. Inoltre si realizzano nuovi sistemi per consentire l'accesso alla media ed alta cavea, su cui viene creato un piccolo tempio che richiama la struttura dei teatri di Sessa Aurunca e di Teano Sidicino. Tale tempio potrebbe essere dedicato al dio Apollo.

Il teatro di Cales è stato purtroppo spogliato in maniera sistematica del suo apparato decorativo che era notevole, vista la quantità di frammenti marmorei e degli elementi architettonici in marmo e tufo rinvenuti negli strati di interro. Infatti, anche se mancano i resti di apparati decorativi ed elementi architettonici, è ipotizzabile che la decorazione fosse di alto livello qualitativo tramite la visione attenta dei pochi frammenti di marmi policromi presenti, le modanature architettoniche in tufo e marmo e gli elementi scultorei lapidei.

A proposito di questi ultimi, si evidenziano soggetti dionisiaci. E' tale il frammento di rilievo con sileno flautista che, come gli altri frammenti, possono essere di datazione tra la fine del I e del II secolo d.C. Altri frammenti a tema dionisiaco e una testa marmorea di età antonina furono rinvenuti nell’area nel 1862.

Collegato al teatro da una scalinata in tufo, sulla terrazza a nord di esso e a sud del decumano massimo, vi era un santuario di cui si conservano i resti di un edificio templare (coordinate geografiche: Latitudine 41° 12’ 1.35’’ N, longitudine 14° 7’ 59.71’’ E).

Tale edificio fu costruito verso la metà del I secolo d.C. su un’area sacra precedente da cui proviene un capitello arcaico in tufo di stile dorico etrusco- campano ed un’antefissa a testa femminile tra fiori di loto della fine del VI - inizi del V secolo a. C.

Il teatro romano di Cales e i monumenti vicini gravitavano molto probabilmente intorno al Foro della città, considerando altresì che al margine meridionale era presente un arco monumentale, detto tradizionalmente “Arco d’Orlando”.
L'Anfiteatro di Cales si trova in territorio quasi inaccessibile e con visibilità quasi nulla per una delle principali testimonianze dell’Antica Cales in età romana, la cui costruzione risale al I secolo a.C. Ripetendo lo schema tipico degli antichi municipi romani, anche l’Anfiteatro di Cales fu costruito in una posizione che lo storico Giuseppe Carcaiso definisce “piuttosto eccentrica” in quanto la sua localizzazione è alla periferia della nord-orientale della città fortifica, quasi sul ciglio del burrone che affacciava sul Rio dei Lanzi.

La datazione della sua costruzione è ascrivibile al primo secolo a.C., quindi nello stesso periodo in cui fu costruito quello di Pompei con il quale l’Anfiteatro di Cales doveva avere diverse analogie. La tecnica di costruzione è quella dello scavo del terreno tufaceo e parzialmente a terrapieno artificiale. Alle gradinate inferiori, i cui posti erano riservati alle autorità municipali e agli ospiti di riguardo, secondo consuetudine, si accedeva dal pianterreno attraverso appositi corridoi. Ai piani superiori, invece, si arrivava salendo dalle scale esterne.

Come abbiamo evidenziato, attualmente la struttura è coperta dalla vegetazione e conservata in pochi resti, ma si riconosce sul terreno la vasta pianta ellittica dell’arena, che si trova a circa 7 m. di profondità rispetto al piano di campagna attuale, e presenta un asse maggiore lungo m 87,20, orientato in senso E–O. La cavea era costituita, originariamente, da gradinate per il pubblico che partecipava ai giochi gladiatori (venationes) e da portali monumentali di accesso all’arena, ornati da semicolonne in laterizio, affiancati da porte minori in opera reticolata. Secondo lo studioso Johannowsky, la costruzione dell’Anfiteatro di Cales fu “ampliata in età flavia o più tardi”.

Come è noto, uno dei meriti più rilevanti dell’impero romano è consistito nell’aver messo a disposizione di tutti, patrizi e plebei, liberi e schiavi, una serie notevole di impianti termali con fruizione gratis del servizio offerto oppure pagando una somma molto modesta. Per quanto riguarda la Cales romana, due imponenti complessi termali ci danno la testimonianza della vita civile e culturale di quel tempo: le Terme settentrionale e le Terme centrali.

Non impropriamente parliamo di vita civile e cultura in quanto l’uso delle terme non era circoscritto ai vari tipi di bagni, ma esteso al gioco, all’esercizio fisico, alle annesse biblioteche, alle conversazioni negli attigui giardini. Le Terme settentrionali erano situate in prossimità del Foro, lungo il lato destro del Cardo Maximus, scendendo dall’Arce. Trattasi di una costruzione del II secolo d.C., edificata in opus latericium e parte in reticulatum. Tuttavia le più note sono le Terme Centrali, in quanto l’archeologo napoletano Werner Johannowsky e la sua équipe, tramite scavi sistematici e mirati del 1960, ci forniscono notizie complete e dettagliate.

Riguardo, infatti, alle Terme centrali Johannowsky ci comunica che trattasi di edificio databile intorno al 90-70 a.C. il quale è da considerarsi “dopo le terme di Mercurio e Baia”, e, accanto al nucleo delle terme Taurine presso Centumcellae, il più grandioso complesso termale di età repubblicana finora conosciuto.

Scrive Johannowsky: “Le terme centrali di Cales sono uno dei pochissimi edifici relativamente ben conservati di epoca anteriore al II secolo a.C.” di cui le terme pompeiane costituiscono “il confronto migliore” aggiungendo che “la predominanza ancora assoluta della linea, sia pure accompagnata da una nota coloristica di carattere ellenistico, in qualche figura, impedisce di scendere con la datazione verso la metà del I secolo a.C. Anzi l’ottima qualità degli stucchi dell’Apoditerio[…] sono in favore di una datazione alta, verso il 90-70 a.C.”

Le Terme Centrali di Cales erano articolate in una serie di ambienti, ornati in maniera ampia con splendide statue, vasche, marmi pregiati e pannelli di stucco policromi a rilievo incastrati alle pareti. Ogni ambiente aveva una sua funzione specifica in maniera da permettere tutti i “passaggi” che costituivano la parte attrattiva di tali impianti. Così all’ingresso vi era l’Apodyterium, un salone rettangolare di circa 170mq, adibito a spogliatoio. Passando attraverso il Tepidarium, si accedeva al Calidarium, ove si facevano bagni caldi e di vapore e bagni di sudore che erano considerati molto salutari. Dal Calidarium si tornava nel Tepidarium, ove la temperatura era tenuta costantemente tiepida. In tale luogo si era soliti sostare e chiaccherare in maniera da ottenere un calo graduale ed ideale della temperatura. Dopo di ciò, si poteva passare nel Frigidarium per un più o meno lungo bagno in piscina con l’acqua fredda.


LA STRUTTURA URBANA DELLA CITTA’

Le strade urbane di Cales erano tutte lastricate in calcare, ad eccezione di quelle principali, il Cardo Maximo e Via Patula. In particolare il Cardo Maximo era interamente pavimentato con blocchi di selce. Dalle epigrafi si riesce ad avere una definizione, anche se non completa, della toponomastica della cittadina. In particolare sono due iscrizioni che ci forniscono le informazioni al riguardo.

La prima, dopo essere stata sistemata nell’ex palazzo vescovile di Pignataro, ai principi dell’Ottocento, fu regalata da un vescovo dell’epoca al sign. Francesco Daniele di San Clemente. Essa ci parla dei quatorviri di Cales, i quali avevano fatto lastricare la strada che portava a Porta Somma e al Clivo, presso la Porta Gemina, nonché quella situata tra la Porta Marziale e l’Angioporto, nei pressi del tempio della dea Matuta ( M.FURIUS.C.F.NUMIDA/ M.VERATIUS.C.F.POLLIO/ III.VIR.J.D./STRATAM. AD. PORTAM/ SUMMAM. ET.IN. CLIV./AD PORTAM GEMINAM/ ET INTRA PORTAM MARTIALEM.AD. ANCIPO/ MUTATAE.S.C.R.C./ IDEMQUE.PROBAVERE).

Una seconda epigrafe fu rinvenuta nel vecchio seminario di Calvi e andò ad arricchire le collezioni private del suindicato Francesco Daniele, le quali furono successivamente dal Museo Nazionale di Napoli dagli eredi del Daniele. Da questa seconda iscrizione apprendiamo che un ignoto Augustale caleno aveva provveduto, di tasca propria, a far pavimentare ed ornare di statue e colonnati la via che andava dall’Angiporto di Giunone Lucina fino al tempio della Dea Matuta. Nel contempo aveva fatto sistemare la strada che, partendo dal Clivio, e dal tempio di Giano, si allungava fino al rione dei Cisiari di Porta Stellatina per proseguire dalla via Patula fino alla Porta Laeva e dal Foro alla Porta Domestica. (…GUSTALIS/ ORNAMENTIS/VIAM A.B.ANGIPORTU A/ IUNONIS.LUCINAE.USQUE/AEDAM.MATUTAE.ET.CLIVO/ AB JANU AD GISARIOS.PORTAE/ STELLANITAE ET VIAM PATUALM/ AD PORTAM LAEVAM ET AB FORO/AD PORTAM DOMESTICAM/ SUA PECUNIA.STRAVIT).

Tali indicazioni ci consentono di ipotizzare una plausibile toponomastica, ad iniziare dalla Porta Stellatina che era situata in fondo all’attuale via Forma. Da via Forma partiva una via anonima che collegava Cales con l’ager Stellas, ossia gli attuali comuni di Vitulazio e Bellona. Riguardo ai menzionati Cisiari di Porta Stellatina, è plausibile altresì che le loro botteghe fossero situate lungo l’attuale via Forma e che tale via portasse il nome di Via dei Cisarii. Inoltre il Foro si trovava tra le terme centrali, l’arco centrale ed un tempio non identificato. La famosa via Latina, provenendo da Teano Sidicinum, passava all’interno di Cales per portarsi successivamente a Casilinum e a Capua. La via Latina attraversava Cales da Nord-Ovest a Sud-Est e la sua denominazione plausibile era Via Patula, ossia Via Lata o via Maestra.

Le porte più imponenti erano Porta Summa e la Porta Marziale, la prima che chiudeva la città a Nord-Ovest, al limite dell’attuale via Forma e l’altra identificata più a sud, alla fine di Via Formelle. In relazione al Clivo è plausibile, inoltre, ipotizzare che esso fosse presente nel poggio ove sorgono attualmente la cattedrale e il vecchio castello longobardo e ove ai tempi della Cales Romana vi era l’Arce e il tempio di Giano, sulle cui rovine fu edificata la cattedrale romanica. Notevole importanza rivestiva la Porta Gemina in quanto fungeva da collegamento tra Cales e le città di Trebula, Caiatia e Alife. In relazione alla Porta Leva e alla Porta Domestica, una delle due era situata davanti al Ponte delle Monache, all’inizio di una strada che portava verso l’Ager Falernus, mentre l’altra sul perimetro occidentale della città, a sud del teatro. Ci resta l’identificazione del Vicus Palatius, riguardo al quale, contrariamente all'archeologo Giuseppe Novi, che lo considera un importante e florido borgo di Cales, Giuseppe Carcaiso ritiene che fosse un rione della stessa cittadina. (vedi immagine mappa della città)


Il VINO CALENO

Le testimonianze di vari scrittori classici ci confermano come i vini che si producevano a Cales fossero apprezzati in epoca romana. Il grande poeta Orazio ne fa riferimento nel libro I, Ode 20 e 31 dei Carmina e nel Libro IV- Ode 12 della stessa raccolta di poesie.

Nell’Ode “Mecenate a cena da Orazio” il poeta assicura il suo ospite che berrà “uva spremuta con torchio caleno”.


Berrai un vino sabino di poco valore
in semplici boccali, quel vino che in un’anfora greca
ho io stesso sigillato e imbottigliato,
quando ti fu dato in teatro un applauso,
caro cavaliere Mecenate, tale che le rive
del fiume dei tuoi avi e la festosa
eco del colle Vaticano
ti rendevano le lodi.
Berrai Cecubo e uva spremuta con torchio caleno;
né le mie tazze
sono mitigate da viti di Falerno
né dai colli di Formia.

Nell’Ode 31 dello stesso Libro I, Orazio scrive:
Lascia che con la falce poti le viti di Cales
chi le ebbe dalla fortuna…
Premant Calena falce quibus dedit
Fortuna vitem…

Nell’Ode 12 del libro IV, dedicata a Virgilio, il grande Orazio scrive:
La stagione, Virgilio, accende la sete;
ma se vuoi vino dei torchi di Cales,
tu, amico di giovani famosi,
dovrai guadagnartelo col tuo nardo:
basta un suo vasetto per attirare l’anfora,
che ora giace nei magazzini di Sulpicio
e che donerà nuove speranze,
dissipando l’amarezza dei nostri affanni.


Strabone, storico e geografo greco, magnificando i prodotti della Campania Felix, ebbe a scrivere nel “De situ orbis
Vinum optimum hinc habent romani: Falernum, Statanum, Calenum…

I vini di Cales furono magnificati anche da Plinio, il quale, nel Libro XIV, capitolo 6 di Historia Naturalis, li poneva nella terza categoria tra tutti quelli che si producevano in Italia: Ad tertiam palmam venere Albana… Massica… juncta his praeponi solebant Calenum et quae in vineis arbustisque nascuntur Fundana…

In piena epoca imperiale furono Giovenale e in seguito Ateneo a scrivere della bontà del vino di Cales. In particolare Giovenale, nella prima satira, dichiarando che è stato indotto a scrivere tale opera per sdegno contro il malcostume e la corruzione dilaganti a Roma, fece riferimento al vino caleno al verso 55 con tali parole: “Occurrit matrona potens, quale molle Calenum/ Porrectura viro, miscet sitientem rubetam…” (Corre incontro una dama impettita che al marito assetato propina nettare di Cales mescolato con veleno di ranocchio…)

Invece Ateneo, nel testo “I sapienti a banchetto” paragona il Calenum al Falernum, affermando che “Calenum leve magis Falermum stomacho placet”.

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