ANGELO CORBO: “FALCONE? PROBABILMENTE NON C’ERA LA VOLONTÀ DI SALVARLO”
SARÀ PREMIATO A CALVI RISORTA AL PREMIO LEGALITÀ
Calvirisortanews, 21
luglio 2013
Angelo Corbo (nella foto), superstite a Capaci della scorta di
Giovanni Falcone e oggi Ispettore della Polizia di Stato, sarà premiato alla
quarta edizione del Premio Nazionale Legalità e Sicurezza Pubblica in Campania,
che si terrà a Calvi Risorta (CE) il prossimo 26 Ottobre 2013. L’evento è stato
organizzato dall’Associazione Demetraviva retta dal
dott. Giovanni Marrocco e dall'Editore di www.calvirisortanews.it Vito Taffuri, mentre a condurre l’evento sarà la dott.ssa Angela
Esposito dell’Associazione S.O.S della città di Mondragone. E così Angelo Corbo racconta con dignità e profonda umanità la sua storia
e il suo dramma e poi il prossimo 26 ottobre lo racconterà di nuovo a chi non
avuto modo di leggerlo sul sito.
Cosa significa essere uno dei pochi
superstiti della strage di Capaci?
«Io non ho superato il fatto di essere vivo. Mi sento in colpa e mi sento uno
sconfitto perché non ho difeso la persona che scortavo. Provo un profondo senso
di vergogna per essere sopravvissuto e per non avere la forza di guardare in
faccia le vedove e i figli dei miei colleghi morti».
In questi 21 anni ha mai pensato che la
strage potesse essere evitata in qualche modo?
«Non era qualcosa che potevamo fare noi della scorta, c’è stata una mancanza da
parte degli apparati superiori; eravamo coscienti che dietro di noi operassero
i servizi segreti, ma speravamo che si potesse fare qualcosa per salvare
Falcone, anche se Capaci ha dimostrato il contrario. Probabilmente non c’era la
volontà di salvarlo. Sarebbe bastato non ridurre il personale addetto alla sua
scorta o gli armamenti. Piccoli particolari che dall’esterno sembrano
insignificanti, ma per chi svolge questo tipo di servizio da anni – e io ero
con Falcone da tre anni – simili mancanze erano l’indizio che si sarebbe
arrivati ad un’unica soluzione finale. Noi della scorta nutrivamo una speranza:
che se fosse accaduto qualcosa, si fosse trattato di un normale agguato, con un
conflitto a fuoco dove avremmo potuto reagire alla pari. Ma di fronte a
quell’esplosione, non potevamo far nulla».
Perché un attacco di quelle proporzioni?
«Sarebbe stato facile colpire Falcone a Roma, quando era scortato solo da due
agenti e girava tranquillo per la città. Ma no, la mafia l’ha voluto colpire in
modo eclatante: il maxiprocesso del giudice Caponnetto e del Pool è stato molto
importante, ha inflitto un duro colpo a Cosa Nostra. E quell’attentato è stato
una sorta di smacco e di segnale forte a tutti i palermitani e siciliani onesti
che avevano creduto nel Pool».
C’è chi sta pagando per quell’attentato.
Ma era possibile sventarlo?
«Sotto l’autostrada è stato portato il tritolo, sono state compiute alcune
prove, e sicuramente qualcuno ha visto. È di pochi giorni fa la dichiarazione
di un ragazzo di Capaci, che aveva già riferito anche a me la stessa cosa,
dicendo di aver fotografato strani movimenti nella zona in cui fu piazzato
l’esplosivo. Sta di fatto che il giorno dell’attentato qualcuno lo ha
avvicinato con un tesserino, chiedendogli quei rullini. Non sapremo mai se questa
storia è vera, ma se lo fosse, sicuramente in quei fotogrammi c’era qualcosa
che poteva essere utile alle indagini. Chi le ha svolte ha trovato gli
esecutori materiali, che molto ingenuamente si sono fatti incastrare dai
mozziconi di sigaretta gettati nel nascondiglio. Ma questo non basta a darci
giustizia».
La sua è una storia nella storia:
all’epoca della strage di Capaci aveva 27 anni. Cosa ha significato per lei
essere un agente della scorta di Giovanni Falcone?
«Non mi sono mai pentito della mia scelta. Anche se non siamo noi agenti a
scegliere di fare la scorta, ma veniamo scelti. Gli scortati sono i veri
carcerati e non hanno più la loro libertà. Ma anche fare l’agente di scorta non
è facile. Ho sostituito i colleghi che avevano chiesto il cambio dopo la
tentata strage dell’Addaura. Ho vissuto il periodo
peggiore di Falcone, denigrato ed ostacolato in tutto perché era diventato un
personaggio scomodo: veniva trattato come una pezza da piedi. E noi eravamo con
lui, 20 ore al giorno. Con il giudice istruttore di Palermo che lavorava dalle
7 del mattino alle 10 di sera».
Com’era il rapporto di voi agenti con Falcone?
«Con lui il lavoro era molto difficile. Non era un amico della scorta, noi
eravamo professionisti ma c’era un certo distacco: pretendeva da noi la
professionalità che anche lui aveva sul lavoro. Quando sento del rapporto
familiare che il giudice Caponnetto aveva con la sua scorta, provo molta
invidia».
E Falcone manifestava mai il timore di essere colpito da Cosa Nostra?
«Sapeva di essere un morto che camminava, come noi sapevamo di scortare un
morto che camminava e, di conseguenza, di esserlo anche noi. Sicuramente
eravamo convinti dei nostri mezzi. Come ho scritto, ci sentivamo protetti da
uno scudo invisibile. Come dei supereroi. Del resto, per fare questo servizio
bisogna essere, paradossalmente, poco lucidi, con l’adrenalina sempre in
circolo. Essere al di là della paura, per vincerla quella paura. Ecco, noi
eravamo convinti che in uno scontro ad armi pari avremmo sicuramente avuto la meglio.
Sapevamo che poteva accadere, ma speravamo che non accadesse in maniera tanto
vigliacca».
Quella del convegno a Scandiano è stata
una delle sue prime uscite pubbliche. Perché?
«Si dovrebbe ricordare non solo chi perse la vita quel giorno, ma anche chi è
rimasto vivo allora. E invece noi sopravvissuti facciamo parte di quella
categoria di persone trattate come fantasmi. Non siamo nessuno e di noi non si
parla. Ed è peggio che essere morti: non ero mai stato invitato prima d’ora ad
una cerimonia ufficiale, eppure sono uno degli ultimi che ha visto il giudice
Falcone vivo. E che ha visto i suoi occhi dopo l’esplosione. Non potrò mai
dimenticarlo. Anche noi reduci abbiamo scritto la storia della lotta alla
mafia. Eppure, è come per Caponnetto, di cui si parla poco, perché non ha
subito una morte cruenta».
Perché il suo dramma non è stato capito?
«Penso che inizialmente sia stata anche una forma di protezione. Come se
volessero dimenticare chi è rimasto vivo quel giorno per non so quale motivo.
Posso fare solo delle ipotesi. Sta di fatto, comunque, che chi doveva starti
vicino in quei momenti ti è stato lontano, facendoti sentire ancora più in
colpa, e quando magari tu gridi la tua rabbia è là che risponde: “Cosa vuoi? Tu
hai ricevuto una medaglia d’oro al valor civile, cosa pretendi, cosa chiedi?”.
Senza sapere che chi subisce un dramma del genere, tanto più grande di lui, ha
bisogno di una totale tranquillità psichica. Ecco, io ho voluto continuare a
fare il mio lavoro e sono contento di farlo, ma sicuramente una pacca sulle
spalle da parte di un esponente del mio ministero non mi sarebbe dispiaciuta.
Soprattutto all’inizio, quando avevo bisogno di aiuto, quando per scelta
forzata ho dovuto lasciare la mia città, Palermo, e trasferirmi a Firenze,
proprio perché ero stato sconfitto e mi sentivo male. E anche lì nessuno si è
mai chiesto: “Lei va in un’altra sede, ma come farà a vivere lì?”. Eppure
bastava poco, magari essere ricevuto dal prefetto di quella mia nuova città,
bastava un gesto umano».
Parla di problematiche psichiche. Come
le ha affrontate?
«Non ho mai chiesto nulla e ho fatto di tutto per continuare a lavorare. Le ho
nascoste per tanti anni fino a quando, nel 2006, ho rischiato quasi il
suicidio. A salvarmi è stata la mia famiglia: ho avuto la fortuna di aver
sempre accanto mia moglie. Qualcuno ha detto che dietro ad un grande uomo c’è
sempre una grande donna. Io non sono assolutamente un grande uomo, sono uno
sconfitto, però ho avuto la fortuna di avere accanto una grande donna che ha
capito i miei problemi e mi ha aiutato a superarli. Mi ha costretto a chiedere
aiuto ad uno psicologo che mi ha spronato ad andare avanti e a non vergognarmi
di chiedere aiuto. Così, è cominciato un percorso di rinascita e di
riconquista. Ho iniziato ad aprirmi agli altri, a raccontare la mia storia, a
farne una sceneggiatura e soprattutto a trasmettere ai ragazzi la mia
disavventura, per insegnare loro qualcosa di importante, affinché crescano con
consapevolezza e riescano in quello in cui noi abbiamo fallito. Ho iniziato
questo percorso da 7 mesi: questo ha permesso anche a quella parte di me che
quel giorno è morta di tornare in vita».
Cosa cerca di insegnare ai ragazzi?
«Cos’è la mafia veramente. Lo dico anche da palermitano: ho convissuto con il
fenomeno mafioso per 27 anni, perché sono originario di un quartiere popolare
di Palermo. Ci inculcavano dall’alto che la mafia non esisteva e che era
un’invenzione dei giornali. E invece, la mafia esiste e quello che ti dà oggi
te lo richiede indietro triplicato domani».
E oggi, cosa resta di tutte le sue
paure?
«Le paure e i traumi restano anche a distanza di 21 anni. E non tutti ti
credono quando dici che dopo 15 anni ti svegliavi ancora di notte, gridando,
che non potevi sentire un tappo della bottiglia che involontariamente si
stappava e cadeva a terra. Un episodio particolare mi è capitato lo scorso 23
maggio, l’anniversario della strage. Mia moglie mi ha costretto a fuggire da
Firenze. Ero a Locarno e non pensavo a nulla, quando mi sono sentito colpire da
qualcosa sulla spalla: un uccellino in volo aveva fatto cadere un pezzo di cibo
dal becco, che era finito accidentalmente su di me. Istintivamente, ho guardato
l’orologio: erano le 17.58. L’ora dell’esplosione a Capaci».