Cales: urbis egregia tra “monnezza” e saccheggio della camorra
Il Fatto, 19 marzo 2013
Pneumatici.
A centinaia. Oltre ad una quantità incredibile di spazzatura
di ogni tipo. Gettati nel letto e lungo le scarpate del Rio Pezzasecca, il torrente oggi completamente
in secco che fuoriesce dal Ponte delle Monache. Così il vasto cunicolo di epoca
romana che si apre sotto al ponte omonimo, nel punto di confluenza di
canalizzazioni sotterranee. Nonostante sia uno degli esempi migliori delle
capacità realizzative nel settore dell’ingegneria idraulica raggiunte già nel IV
secolo a. C., non gli si è prestata la cura che avrebbe
meritato. E anche a causa del passaggio del traffico veicolare, consentito fino
a non molti anni fa, l’infrastruttura ha subito il distacco di numerosi
diaframmi di banco nel quale è stato scavato. Ed ora quel che c’è si conserva
quasi suo malgrado.
Siamo a Cales, importante centro degli
Aurunci e poi città romana, in località Calvi Vecchia, in corrispondenza del km
187 della via Casilina. Calvi Risorta, centro della Campania settentrionale, in
provincia di Caserta, è a pochi chilometri. Non una città qualunque. Come
indiziano gli appellativi di “urbis
egregia” e di “civitas magna” con i
quali la connotarono nell’antichità. D’altra parte qui si producevano ceramiche
stampate e decorate, esportate e famose ovunque. Nelle sue campagne erano
coltivati vigneti che davano un vino di altissima qualità. Peccato che l’area
archeologica non abbia avuto una storia facile. Che prosegue. Tagliata a metà
dall’Autostrada del Sole nel 1960, finora è stata indagata solo parzialmente.
Spesso in maniera episodica. Come accaduto nel 1993 e poi nel 1994, quando
alcune opere a ridosso della corsia nord dell’Autostrada consentirono il
rinvenimento di alcuni settori abitativi della città romana. Per il resto
quello che è stato scavato emerge dalla vegetazione. Tra una lastra di eternit
ed un frigorifero. Tra un materasso e un cumulo di bottiglie. Percorrendo
stradine campestri lungo le quali a fatica si scorgono vecchie indicazioni
spesso utilizzate per esercitarsi nello sparare.
In prossimità del limite occidentale delle mura e a poca distanza
dal Foro, in località Grotte, si trova il teatro, il
monumento meglio noto dopo gli scavi finanziati con un miliardo e 200 milioni
di lire dalla Comunità Europea. Accedervi è fin troppo facile. Dopo che la
recinzione realizzata alcuni anni fa, è stata in gran parte rubata. Così la
grandiosa struttura per spettacolo con una prima fase in opera incerta, intorno
alla metà del I secolo a. C., ed una
successiva in opera reticolata, nel corso del I secolo d. C., continua ad
essere una cava per chiunque lo voglia. Con un po’ di pazienza e soprattutto
essendosi procurati una pianta della città antica che aiuti nel raggiungere
quanto resta di Cales, si può vedere altro. Proprio di fronte al teatro,
in località Arco d’Orlando, ci sono le terme
settentrionali. Un grandioso complesso del I-II secolo d. C. che lo scavo,
parziale, ha permesso di riconoscere nella sua planimetria. Con ambienti
suddivisi su tre file.
Più avanti il complesso delle Terme centrali, riferibile agli inizi
del I secolo a.C., che conserva quasi integralmente parte degli ambienti,
taluni ancora con la decorazione in stucco. Ancora, c’è l’anfiteatro,
in località Circulo. In assenza di murature, a parte
pochi resti delle semicolonne in laterizio, che ornavano i lati degli ingressi
all’ambulacro esterno, l’edificio è riconoscibile dalla forma ellittica con
l’interno posto a circa 7 metri al di sotto del piano di campagna. Realizzato
nel I secolo a. C., anche se con fasi successive di età imperiale, sfruttando
per le gradinate il declivio artificiale determinato dallo scavo dell’area
centrale. Poi i resti di un tempio e poi quelli delle mura.
Ma tutto questo e molto altro è per i pochi turisti che si
avventurano da queste parti. Per gli studiosi. E per chi ritiene che
l’archeologia sia solo un traffico illegale di reperti. Cales è purtroppo un comodo deposito
a cielo aperto dal quale sottrarre quel che più interessa. Come sanno bene
alcuni affiliati locali alla camorra. Che spesso conservano
nelle loro case materiali antichi come simbolo di prestigio e potere. Come
dimostrano le 51 persone indagate alcune settimane fa, molte delle quali
provenienti da Casal di Principe.
La lista dei trafugamenti accertati è lunga e articolata. Senza la
necessità di andare troppo indietro nel tempo. Si può comodamente iniziare
nella primavera del 1995 quando fu interamente saccheggiata una piccola
necropoli, tardo antica. Si prosegue nel 1997, con alcune
colonne portate via dalla struttura templare. Con ulteriore saccheggio nella
zona sacra, di probabile pertinenza ellenistica, nel 2001. Con uno scavo
clandestino all’interno del teatro nel 2007. Con l’asportazione della parte
superiore delle figure dei cinque santi raffigurate all’interno della Grotta
dei Santi, una delle cavità scavata nel tufo da alcuni monaci
di San Basilio tra il X e l’XI secolo per rifugiarsi dalle persecuzioni da parte
degli iconoclasti.
Manca qualsiasi forma di tutela e valorizzazione. Come già in altri
casi il connubio tra “monnezza” e archeologia sembra l’unico vincente in una
terra che continua quasi volontariamente a dismettere il bello che ha.
L’abbandono, nei fatti, dell’area archeologica causa ed effetto del degrado
paesaggistico e ambientale. Quel che potrebbe e dovrebbe costituire
un’occasione anche per l’economia di questo centro del casertano, fatta morire.
Fin’ora. Soffocata dalla mancanza di progetti seri.
Proposti con autorevolezza dalle istituzioni dello Stato. Non è evidentemente
solo un problema dell’archeologia. Anche se iniziare da questo potrebbe
lanciare un segnale. Finalmente.