Il racconto di
Bruno Mele: “La disperazione del Santo Patrono”
Caserta24ore,
09 agosto 2008
Bruno Mele
In questi
giorni si festeggia a Petrulo di
Calvi Risorta S.Nicandro, il santo patrono
vescovo e martire venuto dall’Oriente. Ecco il racconto del professore
Bruno Mele dove lo scrittore immagina un colloquio con il santo.
… il sopraggiunto non aveva voglia di chiarire le ragioni della sua presenza,
mentre gli altri, proprio perché lo avevano riconosciuto, continuavano a
comportarsi con indifferenza, evitando i convenevoli del caso e i salamelecchi.
Anna, la
robusta padrona di casa, armeggiava con una pala di legno tra il forno ed un
tavolo collocato sotto un albero di limoni che pareva
un ornamento dell’aia, per deporvi il pane cocente, mentre Antonio lo avvolgeva
in fretta in fogli di carta ricavati dai sacchi di farina o in panni di cucina,
per tenerlo il più a lungo possibile ben tiepido e fragrante rima di
consegnarlo a chi sarebbe arrivato più tardi.
Seduto sul
primo gradino di una scala, un vecchio ferroviere raccontava storie mirabolanti
del Santo Patrono, di cui si approssimava la festa in onore, annunciata proprio
in quei momenti da fuochi d’artificio che rimbombavano con maggior fragore nel
vallone lì sotto, a breve distanza dalla masseria, dove cade a strapiombo
l’acqua della sorgente; ed erano, quelle bombe, una nota ampiamente stonata
nell’armonia naturale dei luoghi.
Anna gli
prestava orecchio e intanto continuava a sfornare il pane mentre l’ultimo
arrivato faceva del proprio meglio per non far pesare la sua presenza,
incuriosito a sua volta da ciò che andava raccontando il vecchio ferroviere Sarizzo, che metteva maggior impegno e foga nel far
emergere da un groviglio di superstizioni tutta la
potenza del Santo di cui la gente parlava con timore; una potenza un po’
strana, invero.
Sentì dire che
aveva malamente conciato, per ripicca, un gruppo di
beoni del luogo e persino l’aiutante parroco. Una parte della chiesa era un tempo crollata, fu giocoforza, per ripararla, togliere le
statue dalle nicchie e sistemarle altrove; furono alla bisogna momentaneamente
collocate in uno slargo accanto alla canonica, ben visibili a chiunque passava
lungo l’unica stradina del borgo.
Più lontano
c’era la frasca di Silano,dove un gruppo di quattro
collaudati amici beoni si recava abitualmente e una notte, mentre rientravano, si
fermarono a guardare le statue, segnatamente quella del Santo Patrono e
cominciarono a fare commenti poco graditi. La finirono soltanto quando il più
sobrio dei quattro, Pasquale Caprarelli, li esortò a
non scherzare coi santi in quel modo.
Già nel corso
della stessa notte il patrono era passato alla vendetta andando a casa del
ferroviere Cuntarelli, dove aveva battuto con tal
forza i pugni sul tavolo della cucina da far tremare la casa proprio come se
fosse un medio terremoto, e sol perché il poverino aveva detto che davanti a vecchio
santo non ci si toglie il berretto; in fondo era fuori sede. La mattina
successiva l’infuriato Patrono si recò nel campo dove Giorgio Scellone, un altro del gruppetto, era andato a seminare,
nientedimeno che, nel giorno autunnale di festa a Lui dedicato e gli aveva affibbiato un sonoro ceffone, di cui portò il
segno per il resto della vita sotto forma di una macchia rossastra ben
visibile. Aveva osato anteporre il lavoro della semina alla solennità della
Messa officiata dal vescovo, dopo che si era permesso di disprezzare la
materia, il pero, in cui era intagliata la statua.
A Nicandro Varrecchione, poi, nel tardo pomeriggio annunziò
addirittura una paralisi che gli avrebbe precluso la via dell’America, dove era
stato chiamato dai parenti ivi naturalizzati. Il quarto del gruppetto la fece
franca per quel saggio, seppur tardivo invito al rispetto e alla moderazione.
Ma quello che più lo sbalordì, fu quando Sarizzo raccontò dell’agguato teso al parroco, don
Crescenzo, e al suo aiutante lungo una carraia infossata che conduceva per vie
secondarie al cimitero. I reverendi erano soliti andare a passeggio nel
pomeriggio, senza breviario, ed un giorno, nei pressi del cancello di accesso al podere dell’avvocato don Alfredo, si verificò
qualcosa che fece ribattezzare quel luogo col nome del Santo Patrono. In
seguito nessuno si sognò mai di fare causa per quel cambio toponomastico per
paura di analoghe imboscate, nemmeno l’avvocato
medesimo, che si sarebbe anche potuto divertire alle spalle di chi aveva
operato il nuovo battesimo. Diceva che l’aiutante parroco, detto Parrocchianello, giunto all’altezza di quel cancello si era
messo all’improvviso a saltellare come se volesse evitare delle legnate che
qualcuno cercava di affibbiargli, e nel saltare chiedeva perdono e pietà al
Santo sotto gli occhi atterriti di don Crescenzo.
Ma perché il Santo Patrono aveva deciso di dare una
solenne lezione al Parrochianello? Costui si era
permesso di dire a don Crescenzo nel corso del trasloco: Quando lo levi di qui
questo coso vecchio? Lì per lì il Santo aveva soprasseduto, ma dopo l’insolenza
di Scellone decise di punire
tutti, anche i suoi abituali officianti.
E lo raccontava
talmente convinto della veridicità dei fatti, che si piegava ora di qua e ora
di là come se sentisse sulla sua robusta schiena i colpi evitati dal Parrocchianello, mentre Anna, con gli occhi fuori dalle orbite, taceva sbalordita, sempre più convinta
che chi commette qualsiasi ingiuria verso un tal Santo va giustamente soggetto
a tremende punizioni. E intanto guardava anche il
bacchio poggiato al forno, nel timore che il Patrono lo brandisse
all’improvviso per farle scontare chissà cosa.
Il fratello
Giovanni intuì il suo momentaneo smarrimento ed aggiunse qualcosa ad effetto
per aumentare le paure di lei; non per nulla era stato
a lungo in seminario. Antonio, il marito, ascoltava ed osservava perplesso, poi
fece un rapido esame di coscienza ed andò a spostare quella flessibile e lunga
asta di legno, causa dei timori improvvisi di Anna,
nella legnaia accanto al forno, per sottrarla alla portata del Santo Patrono,
che in quel momento si aggirava certamente sull’aia attiratovi dal racconto di Sarizzo.
Dal suo
profondo e viscerale ateismo egli vide l’enormità di certe credenze e si rese
conto che ogni tentativo di spiegare il concetto di santità a credenti di quel
genere sarebbe stata una vera provocazione, una limitazione alla libertà di
fantasticare su certi fenomeni tipici dell’animo popolare. Sorrise cordialmente
e tacque, e a lento passo si avviò verso il grande
leccio dopo un distratto cenno di saluto, rosicchiando un cantuccio di pane
caldo e croccante che nel frattempo Antonio gli aveva offerto. E ripensò ai
cupi anni dell’infanzia, quando anche egli aveva
sentito con terrore parlare delle vendette di angeli e santi dal pulpito
marmoreo, da cui un predicatore assoldato per particolari solennità e
circostanze sfoggiava tutta la sua dottrina in una chiesa in cui si avvertivano
brividi di freddo e di paura che toglievano idee ed entusiasmo a progetti di
ogni genere, caso mai qualcuno ne coltivasse in segreto; il terrore scacciava
intelligenza e pietà.
E ricordò anche quando aveva preso ed ucciso un
rondinotto per strappargli il cuore e inghiottirlo come un’ostia, perché
l’insegnante di catechismo, la solita zitellona brutta e baffuta ribattezzata
monaca, gli aveva detto che era un modo di star più vicini a Gesù, poiché le rondini ne portavano il lutto fin dalla
crocifissione, che le aveva private di un amico che spesso giocava con loro.
Per farlo, si
era nascosto dietro il portone di accesso al cortile
del caseggiato, in un androne dove nessuno lo avrebbe visto se avesse subito
delle conseguenze da quello slancio mistico di fanciullo. Perniciosa ignoranza,
che in fondo non ha nessun rapporto con la divinità, idea troppo dotta e
raffinata per una infinità di credenti.
Dal complesso di altri ricordi di chiesa trasse infine un senso di
doloroso fastidio perché vedeva ora, in quel modo di vivere seguendo un credo
mortificante un momento deludente dell’esistenza umana in genere, e
maggiormente della propria. Intanto la fragranza di pane lo accompagnava ancora
lungo il ritorno perché Antonio ne aveva sistemato con
cura tutti i pezzi sul tavolo sotto il limone in attesa che gli interessati
venissero a ritirarli.
Ed allora
rivide, mentre risaliva dal varco nella siepe sulla strada più assolata che
mai, come se quella fragranza aprisse un proprio varco tra i ricordi, due
figure lacere e nere di miseria correre a precipizio sui sassi sconnessi della
mulattiera, inseguite dalle voci concitate, dalle imprecazioni e dalle sassate
di un gruppetto di abitanti del paese collinare, dove Civitto e Lascella avevano rubato
un pezzo di pane da un forno prima ancora che fosse interamente cotto.
E apparvero più
nitide proprio mentre fuggivano tenendo ben stretto un
autentico tesoro, qual era allora un pezzo di pane di un paio di chili.
Sorrise
benevolo, mentre quelle memorie prorompevano dal velo degli anni ora aperto con
i toni della nostalgia di quei giorni di certo migliori solo per l’ardore della
fanciullezza. Ma quelle figure lacere e scalze che affioravano da quel
velo impalpabile con quali sensazioni rivivrebbero il medesimo scenario? Lasciò
le ipotesi e seguì le immagini che avevano una suggestione più forte; era lassù
per rivedere solo il passato.
Civitto e Lascella, spinti dalla
fame, che era un fenomeno endemico, attirati dall’inconfondibile profumo del
pane già quasi cotto, si erano avvicinati furtivi alla casa fuori del borgo
poi, approfittando di un attimo di assenza della
massaia, avevano agguantato il pezzo più vicino alla bocca del forno. Scottava,
ma la fame scottava di più, così se lo passavano tra le mani mentre vi
soffiavano sopra, e intanto si allontanavano dal luogo del misfatto.
Ma Vito Frascone, che
pascolava capre su un poggio non lontano, li aveva visti e aveva lanciato
l’allarme. Come nei tempi antichi, la solidarietà contro un pericolo reale era scattata all’istante e in men che
non si dica un gruppo di ragazzi e qualche adulto, tutti muniti di bastoni, si
diedero all’inseguimento dei ladruncoli del paese pedemontano,
ben noti anche a loro, lassù.
Nulla sapevano
di Jean Valjean dei
Miserabili e non volevano di certo legarli con catene e spedirli al bagno
penale, ma solo bastonarli a sazietà, per saziarli a modo loro, per soddisfare una innata cattiveria, tipica di chi ha poco, suda molto, ha
dei sani principi ed è costretto dal caso a guardarsi da tutto. Doppia scottatura
in programma per Civitto e Lascella,
che intanto fuggivano allegri, e se qualche sassata li raggiungeva nei polpacci
come a Calandrino nel Mugnone faceva comunque meno male della fame che abitualmente li
attanagliava; erano più rapidi per varie ragioni, ma gli altri non mollavano.
Lungo il
percorso della strana corsa campestre si udiva anche il nome dei santi locali
tirati in ballo per soddisfare i rispettivi stati d’animo, ma loro già vedevano
dall’alto quello che accadeva, in quella faida tra poveri cristiani aiutarono
quelli più neri per fame e miserie varie; le complicità celesti ignorano i
principi giuridici. Così, alle ansie della lunga fuga che li aveva stremati i
due furfantelli non
sommarono le numerose legnate che avrebbero ricevuto se fossero stati
raggiunti.
E potettero anche prendere fiato e rifocillarsi in
fondo alla lunga discesa entro il territorio comunale, ai cui limiti si erano
fermati gli inseguitori, come se temessero di essere considerati degli invasori
se si fossero spinti oltre il termine in pietra ben visibile per consumare la
loro vendetta; era ancor vivo lo spirito delle faide antiche. Come cani,
guairono alquanto prima di riprendere la via del ritorno con gli inutili
bastoni tra le mani; a loro era andata male. Il caso quasi
sempre umilia chi ha maggior ragione.
Presso la pozza
d’acqua di Ciccio Campanaro si erano intanto fermati i due fuggitivi, ma ben
presto li raggiunsero gli altri dell’abituale combriccola che avevano rimediato un po’ di fichi nei terreni della Ciaràula: Pitussi, Parpagnuolo, Barbaciano,Tranchino,
Piedingola; e tutti mangiarono pane caldo e fichi
freschi, perché tra gli affamati veri c’è più solidarietà che tra persone
agiate, che si fanno pesanti dispetti con sfoggio di ricchezze reali o
fittizie.
Nel ricordo di quel misero banchetto si dissolsero le immagini e tacque anche
il brusìo delle voci che le avevano accompagnate.
Sulla mulattiera chiassosa di allora i lecci protendevano i rami fronzuti come
a custodire certe incresciose memorie in un quadro di teneri colori.
Lasciò quei
ricordi nella loro dolente crudezza, riprese la macchina e si avviò lentamente
verso casa in una condizione di palese indifferenza nei riguardi di tutto ciò
che gli si parava davanti lungo la via; non aveva entusiasmo di sorta per un
mondo vivo che gli era notevolmente estraneo.
Curva dopo curva incontrava immagini di primavere lontane che più non
gli sorridevano: luoghi abbandonati da anni, dove arbusti e viticci avevano
creato intrichi inestricabili e l’edera appariva soffocante sugli alberi ancor
verdi. Solo i fichi ai margini dei campi protendevano i rami carichi fin sulla
via, come a stimolare curiosità e appetito di ben altri passanti, ignari o
dimentichi che quelle piante avevano sfamato in molte circostanze intere
generazioni di miseri. Una ricchezza condivisa non senza rimbrotti e
inseguimenti in più di un caso, ma sempre consumata in una umana
comprensione che sapeva di comuni sofferenze.
Rientrò alfine,
lasciando sulla porta la confusa compagnia delle ombre, si tuffò nella poltrona
verde e prese un libro per tornare alla sua realtà più autentica, ma lesse
senza molto interesse le pagine che girava meccanicamente; era distratto e
stanco. Dopo breve tempo si assopì, e non c’era pericolo che fosse
svegliato anche involontariamente, perché solo e appartato, viveva ai margini
di quella comunità di sempre, dove era ripiombato con un peso diverso da quello
che emergeva nella fanciullezza lontana.
In quel
silenzio placò le ansie di quel giorno. Si risvegliò in un’ora assai tarda
mentre intorno regnava una pace amica. Si affacciò sull’uscio a guardare il
cielo sereno e fu spinto verso la piazza vicina come da un irresistibile
desiderio di fare qualcosa, magari anche leggere i manifesti del programma dei
festeggiamenti. La luna splendeva in tutto il suo chiarore sulle colline della
conca e gli alberi più maestosi apparivano come sentinelle di quella pace. Gli
apparve ben visibile allora la roccia solitaria del monte più alto ribattezzata
l’uomo, ma che in verità ha la forma di una mitria gigantesca posata sul capo
di una divinità segreta benefica e antica, a cui nessuno ha
mai dato un nome né consacrato il monte, nonostante le infinite sorgenti
cui hanno attinto generazioni e generazioni di contadini, di artigiani
ceramisti, di viandanti. Solo da quel punto di osservazione
la roccia svetta nella sua forma sacrale; alle sue spalle il monte digrada
verso la valle del Volturno. Da ogni altro angolo del borgo la prospettiva ne falsa l’immagine, l’appiattisce sulle rocce più alte della
cima. Nella solitudine del momento gli sembrò l’unica cosa viva e parlante;
risvegliava fantasie lontane.
Da un lato
aveva la chiesa parrocchiale, e ricordò che il Santo Patrono aveva una mitria
simile a quella roccia vista da quella lontananza. Ma
era ateo e rifletteva a suo modo su quella somiglianza, mentre gli tornavano in
mente le terribili storie di vendetta udite quel giorno dalla bocca del vecchio
ferroviere Sarizzo. Così decise di dare
un’occhiata allo slargo accanto alla canonica, dove un tempo furono
collocate momentaneamente le statue dei santi in dotazione della parrocchia
mentre si riparava la chiesa pericolante. Colà una notte sostarono i beoni che
poi scatenarono le ire del Patrono a causa dei loro irritanti apprezzamenti.
In un silenzio
dai toni solenni creati dalla circostanza, i pensieri e i ricordi si presentano
più nitidi, quasi imperiosi nella nuda verità che fanno
emergere.
Poco battuto
dal sole, quello slargo che immette in due brevi
angiporti lasciava intravedere pur nella luce lunare un annoso grigiore di
muri, dove solo una fantasia agitata da paurose visioni infernali poteva vedere
santi suscettibili e maneschi. Con largo senso di comprensione intuì i timori
del vecchio ferroviere e vide l’inferno ben al di qua dei
limiti dell’esistenza.
Nel più
profondo dell’animo della maggioranza dei credenti il divino
e ogni arcana potenza sono immagini confuse che incutono solo terrore;
da dove deriva tanta paura? Questo è il vero mistero.
In un tal
quadro di certezze logiche trovò una conclusione appagante che era solo sua, ed
era il motivo che lo rendeva maggiormente estraneo a tutto il complesso umano e
culturale in cui agiva. E la solitudine gli appariva
più fredda, senza possibilità di fantasie affettive.
Nella lucida
conclusione trovò una ragione per avviarsi verso casa senza nessuna spinta particolare, ma quando girò gli occhi si imbatté in
qualcosa di allucinante che sembrava emersa lì lì a
bella posta: una statua troneggiava in un lato della piazza su un palco
approntato per l’orchestra, proprio all’angolo della via di casa; il palco lo
aveva visto anche prima, ma la statua?
Si stropicciò gli occhi credendo fosse un abbaglio causato
dalle deboli luci al neon, dalla vicinanza della chiesa e dalle più recenti
riflessioni.
Quando li riaprì nulla era cambiato, il Santo era ancora
là, immobile e solenne, ed era proprio quel Patrono che aveva dato schiaffi e
legnate agli insolenti beoni e all’aiutante parroco. Intanto sulla sommità del
monte apparve più nitida la roccia a forma di mitria, mentre quella posata sul
capo della statua si illuminò come per comunicare
qualcosa: un’ombra, un simulacro indefinibile si agitava sul suo volto e udì
anche una voce che aveva il tono dell’Aldilà. Quando
ebbe la certezza che non era un’illusione ottica si dispose ad ascoltare, a
chiedere. E nacque improvviso un dialogo onesto e stupefacente tra chi ignorava santi e madonne ed un simulacro che si adattava a
tutte le conclusioni perché era al di là di ogni realtà autentica.
Ateo: Come mai ti trovi su un palco? Ti devi esibire anche a chi passa ed
ignora la Chiesa, o ti hanno sfrattato di nuovo per ragioni che io non so?
Aspetti forse qualcuno per rinfrescargli la memoria e ridurlo all’obbedienza?
Santo Patrono: Te la ridi
divertito, miscredente incallito, ma ben vedo anch’io che ce n’è più di
una ragione. Per scopi venali ridicoli mi ritrovo in mezzo ad una strada.
Ateo: Allora non è più sufficiente la chiesa come luogo di
esposizione, o la platea si assottiglia nonostante i continui miracoli?
Santo Patrono: Si assottiglia e rincretinisce, ma io ho la
pazienza di un santo e devo sopportare. Pensa che sono qui per consentire al
vescovo di parlare in pubblico di quei medesimi problemi che i chierici non
sono mai riusciti a rendere chiari e graditi nemmeno in chiesa, che è pur
sempre un luogo aperto a tutti, ma riservato a chi crede. Ma ciò che è più
grave è il fatto che fino all’inizio dei giorni di
festa a me dedicati sarò spostato da un rione all’altro e sistemato sera per
sera presso qualche fedele più zelante, che manifesta la propria religiosità
acquistando la mia particolare protezione per qualche milione. Ogni spostamento,
poi, è preceduto, accompagnato e concluso con fuochi d’artificio, cioè mortaretti, castagnole, botte scure e simili
diavolerie.
Ateo: Ma non puoi far nulla che sia di tua competenza per porre un freno a
queste mistificazioni? Ti sottoponi senza reagire a vere e proprie operazioni
di mercato. Quei poveri beoni li schiaffeggiasti
mentre a questi credenti che avvertono ancora il sibilo di quelle legnate che
dovresti fare?
Santo Patrono: Quelli che tu mi ricordi sono fatti isolati nel
tempo e maggiormente isolati nell’alone di un fiasco di vino. Tu che sei
abituato a giocare con le parole sai bene che qui di
divino non c’è assolutamente nulla, e tuttavia anche le legnate possono
costituire una manifestazione di un potere arcano. La cosa peggiore è che
corrono in chiesa perché hanno paura, e la paura, frutto di secolari prediche
edificanti, è irrazionale specialmente in un credente. E
tu mi dici di farli ragionare, ti pare possibile? Un dialogo chiarificatore può
avvenire con uno come te, che sei più affidabile e
sincero. Non credi, ma nemmeno mi ridicolizzi, insomma mi lasci
in pace.
Ateo: Allora non sei d’accordo con le solennità che ti riservano?
Santo Patrono: No davvero! Ma nemmeno posso usufruire della
potenza della spada dell’Arcangelo con cui vengo
festeggiato per fare chiarezza definitiva in questioni del genere. Dobbiamo
tollerare anche le più rozze manifestazioni di fede, come le bestemmie, che
sono una dimostrazione becera del credo nella nostra potenza, quando non
interveniamo secondo gli umori di chi ci invoca.
Ateo: Ora mi è ben chiaro il motivo per cui non
puoi manifestare il tuo dissenso per quel baccano che ti riservano come
periodica devozione. E’ altrettanto chiaro che ti devi servire di mezzi
impropri, di vie traverse, insomma devi scomodare politica e diplomazia per far
giungere a destinazione il tuo disappunto. Noto, altresì, che il tuo mondo si
regge meglio sui misteri, perciò è bene che i fedeli continuino a credere come
a loro più piace.
Santo Patrono: Non te lo devo dire io che l’ignoranza è più
radicata della conoscenza, il timore più profondo delle certezze, l’egoismo più
vivo dell’altruismo, ed io mi trovo tra i santi proprio perché ho pensato più
al prossimo che a me stesso, secondo la causa di canonizzazione.
Ateo: Mi sembra di cogliere l’interpretazione di una presunta volontà
divina ad opera della burocrazia ecclesiastica sullo
sfondo del messaggio evangelico. Il tuo modus vivendi deve
essere noto e visibile come base del tuo trono, diversamente qual valore
avrebbe un santo senza elementi santificanti? Per quei valori di vita tu
sei tale e puoi fare cose soprannaturali per volere di Dio. Tale credenza varia
solo nel nome e nel tempo, rimane invariata nella sostanza. Tu sai meglio di me
che cose del genere accadevano anche prima che i fantasiosi cristiani
cominciassero a popolare il Cielo di figure come te, vittime di parte,
sfrattando gli dèi, troppo collusi col potere
imperiale. E’ una forma di resurrezione al cui credo è legato tutto l’Oriente
da cui tu stesso vieni. Il desiderio di eternarsi annulla la triste realtà
della morte in un potere arcano. Tu stesso hai scelto quella fede che promette
Paradiso e resurrezione dopo l’estremo palpito carnale. Attraverso l’eternità
illusoria dell’essere si cerca di codificare la veridicità e l’universalità
della tua fede. Ma è pur sempre l’uomo a pensare e a
stabilire anche quelle verità che proclama derivargli per ispirazione da un
Dio. Ora puoi chiarire ogni aspetto della faccenda teologica perché sei nel suo
ambito.
Santo Patrono: In presenza di un santo è
facile e logico fare richieste del genere. Ma a dirti il vero, neppure noi
sappiamo dove sia il nostro Dio, e mentre vaghiamo per
lo spazio vediamo pure che non esiste l’ordine che governa il creato secondo la
nostra stessa fede. In certo qual modo c’è una barriera di misteri anche per
noi e la fumosità dei dogmi possiamo sperimentarla dal
vivo, per cui o accettiamo tutto così com’è o veniamo degradati dopo un
processo di revisione. E’ già accaduto di recente a Giovanna, Gennaro, Giorgio,
che si ritrovano ancora nella nicchia per l’ostinata
resistenza dei loro fedeli, per i quali sarebbe assai complicato adottare altre
agiografie; le abitudini non tengono conto delle esigenze teologiche. Hai ben
detto che qui, sul trono, mi ci hanno messo e quindi possono, volendolo, anche
togliermi; padrini non ce ne sono. Loro inventano la messa e loro se la
cantano; noi ci troviamo al centro di tanta inventiva, contro la nostra volontà
di pace e di tranquillità. Sparano fragorosi mortaretti per onorarci e per
sollecitare grazie o miracoli, senza immaginare che ci fanno sobbalzare
all’improvviso mentre cerchiamo di capire cosa c’è di divino nel cosmo, e a
dirti il vero ci irritano. Ma non possiamo manifestare
comunque e dovunque a suon di ceffoni e legnate il
nostro dissenso senza perdere, ma solo ai nostri occhi medesimi, la qualifica
di santi. E ti garantisco che ce ne vuole di pazienza!
Ateo: Dunque, non puoi dare nemmeno tu quelle certezze che sulla Terra si
proclamano essere a portata di mano; solo pochi esseri vedono che si tratta di
un dilatarsi verso l’infinito di una mistica illusione. Ai loro occhi il cosmo,
più che opera luminosa di un Dio, appare come l’oscura immagine di prospettive di eternità. Il quadro escatologico sa di estrema
e totale finitudine, che solo un Dio Eterno può
rendere finanche lieta.
Santo Patrono: Io già mi ci trovo a vagare come ombra di tenaci
illusioni e ti dico che tutto l’universo è un vibrare di onde
che influenzano anche i palpiti di ogni essere. Invano cerchi un Dio in questo
pulsare perenne perché non c’è l’ordine che a lui si fa risalire. Nella sua
presenza ab ovo, nella sua eternità ideale c’è
l’illusione per la nostra; ed è appunto un’illusione che si disperde con
spirito e corpo in quell’immensità buia e insondabile,
dove gli elementi invisibili sono all’origine di ogni
ipotesi sulla realtà tangibile, ma anche di ogni manipolazione di essa.
Ateo: A quanto pare, è piuttosto incerta anche la
tua posizione; nemmeno tu sai quale sia la tua meta definitiva, se non ti è
ancora chiara l’ubicazione di quel Dio per cui affrontasti il martirio. Sarà
poi vera quella storia? Ed hai agito pensando di
essere incamminato sulla via del Bene. Sapevi dunque distinguerlo dal Male, per
vocazione. Che mi sai dire della lotta per il potere
nei Cieli? Il Male che fine ha fatto? Gli è stata assegnata la Terra, unico
frammento cosmico vivente, a sentir le Sacre Scritture.
Santo Patrono: Poco o nulla, pur essendo ormai consacrato in
compagnia di uno dei partecipanti a quella lotta cosmica. Il Diavolo si fa sentire ma non si fa vedere, eppoi è un’entità puramente terrena perché può attaccare
quella parte dell’uomo che gli vieta l’accesso in Paradiso, se è preponderante
rispetto alla parte celestiale, lo spirito, che è addetto al controllo delle
rinunce. In Terra l’ho avvertito ma l’ho decisamente
evitato, anche se un opportuno pentimento avrebbe poi giustificato il
momentaneo incontro. Da qui riesco spesso ad intuirne la presenza, ma con
l’Arcangelo che mi ritrovo a fianco e che lo conosce meglio di me non temo
assalti.
Ateo: Ma tu non eri già sulla Terra quello che oggi i fedeli del borgo venerano e invocano anche contro il Diavolo?
Santo Patrono: Non completamente. Finché
la morte non ci allontana realmente dalla Terra, noi non siamo mai ciò che si
venera dopo; occorrono tagli e aggiunte opportune. Nella nuova veste, poi, si
entra in un altro ordine di pensieri. Il campo d’azione si restringe alla vita
della gente che ti invoca; insomma devi badare alla
circoscrizione avuta in sorte, alla parrocchia, senza sconfinamenti, per non
generare risentimenti e cause di conflitti di competenze. Roma è l’esempio più
valido sotto questi aspetti. Vedi sofferenze e malanni, raramente la gioia, e
per andare incontro ai bisogni reali si perde il contatto con le realtà
teologiche e metafisiche. Siamo sovrintendenti celesti di eventi
terreni molto limitati.
Ateo: Dunque, hai perso la cognizione del Diavolo proprio quando potevi
divertirti a strapazzarlo? Non hai dovuto mai annoverare streghe nella tua
giurisdizione?
Santo Patrono: Talvolta la pietà induce a stendere un velo su chi
ha scelto la perdizione. In fondo non sappiamo se Dio alla fine si lascerà
stregare dal pianto di certi dannati. La conflittualità
tra il Bene e il Male non la possiamo definire noi.
Ateo: Mi rendo conto che la questione è ancora aperta, e allora te lo dico
io, perché a te sfugge qualcosa di importante della
Teogonia. Ormai con la testa tra i fumi di ceri ed incensi, intento a
sorvegliare certi tuoi turbolenti fedeli, non puoi
aver pensato a quelle realtà celestiali che legittimano il Principe del Male
come potenza terrena. In fondo la battaglia l’aveva persa, e se fu relegato
all’Inferno aveva pur sempre ampie possibilità di manovra, persino quella di
tentare lo stesso Cristo e i santi. Dio forse voleva divertirsi a stuzzicare le
uniche creature del cosmo? Ma il Diavolo bofonchiava
perché di certo lo faceva a malincuore: il suo nemico non era certo l’uomo.
Santo Patrono: Ti sei spinto col pensiero in una regione dove
quasi nessuno osa avventurarsi per timore di non so cosa, e soltanto per amore
di chiarezza. E capisci benissimo che la chiarezza non
si accorda con i misteri in cui è avvolta la nostra fede e la nostra stessa
funzione ed esistenza ultraterrena. Le nostre strade divergono qui,
necessariamente, perché io traggo alimento alla mia immagine da un mondo per te
ignoto e negletto. Senza rancore, perché il tuo silenzio non
ostacola la nostra funzione. Abbiamo soprattutto il compito di obbedire
dopo aver fermamente creduto. Anche dai nostri cieli beati la verità è
parziale; abbiamo orizzonti obbligati, prospettive
monche.
Ateo: In un ampio giro di considerazioni, io sotto sotto
ci vedo un amore viscerale per il potere ad opera di
coloro che hanno creato i santi e lo stesso Dio. I cultori della spiritualità
sono stati indotti da un siffatto ordine di idee a
cercare fuori della Terra l’origine di ogni gerarchia, a teorizzare il
principio di autorità a cui si deve cieca obbedienza per non incorrere nel
reato di lesa maestà con tutte le conseguenze immaginabili. Sarebbe questo un
Dio,il tuo Dio,quello che stabilisce ab ovo le strade su cui devono incamminarsi i figli di ogni
colore? Non ci vedi tu una riedizione in chiave fin troppo sociale del Fato? E
il libero arbitrio non ammetteva anche la riflessione su certi aspetti della
vita e dava anche la facoltà di ribellarsi all’autorità costituita, quasi sempre degenere secondo la tua stessa visione manichea, legittimata secondo le varie Confessioni
ufficiali dal medesimo Dio?
Santo Patrono: Ti ripeto che si tratta di una faccenda che non
rientra nelle mie competenze. Ho solo il compito di sorvegliare il popolo della
mia parrocchia, autorità comprese, ma non posso interferire in questioni di
legittimazione.
Ateo: Dunque, sei ancora vittima di qualcosa che si richiama alla fede, e
tu sei un’immagine, un simbolo che esce da quel groviglio di paure, speranze,
incertezze, sottomissione cieca; ecco perché non esisti per chi vede sotto
altra luce tutta la faccenda, ecco perché appari e scompari all’orizzonte di
tante menti umane perché le mete ultime non sono le medesime. Addio, Santo
Patrono, e grazie per avermi prestato il fantasma che in tutto questo tempo ho ritenuto l’antagonista delle mie più autentiche
convinzioni. Ora tutto sparisce nel ghigno di un’antica illusione di eternità che mai è riuscita ad acquistare luce completa
nella mia mente. Tutto ritorna vuoto, e ci vuole davvero coraggio ad agitarsi
in uno spazio terreno con dominanti note di ostilità,
senza appigli premiali, e farsene anche una ragione di vita. Oltre l’angolo di
quella casa cadranno anche i fantasmi e il silenzio
immenso della notte estiva, dove mi aggiro solitario e senza scopi, mi darà un
quadro di certezze esistenziali attuali e future, insomma perenni. Come ben vedi, ora sono anch’io uno strano simulacro, ma senza trono.
E gli parve cogliere un sorriso triste mentre si
allontanava dalla scena; la luce tremula del neon gli donò l’illusione
ingannevole di uno sguardo che lo seguiva mentre svoltava l’angolo di casa. Poi
l’ora tarda stese un lungo velo di oblio sul fremito
di quei pensieri e il sonno lo rese immemore e docile fino a giorno inoltrato.
Rivide distrattamente le scene del dialogo mentre il vocio della strada gli
confermava il fervore del momento.
Da quella sera fino alla domenica successiva tutto si
svolge come il Patrono aveva annunciato, con un corollario fastidioso, però:
una questua supplementare ad opera di volontari di quartiere per accogliere il
Santo con tali esplosioni di gioia affidata ai mortaretti, da suscitare invidia
e propositi di rivalsa nei devoti che raccoglievano e sparavano di meno. C’era
sempre la processione in programma, oltre agli spostamenti quotidiani.
Verso
mezzogiorno di una calda domenica cominciarono a giungergli parole e toni di
preghiera diffusi da un altoparlante e capì quello che stava accadendo lì
fuori. Il vescovo officiava la Messa solenne con l’aiuto di due sacerdoti su
quel palco allestito in piazza, in quel momento affollata all’inverosimile e
con la presenza di autorità di ogni genere in prima
fila.
Chissà cosa
passava per la mente del Patrono in quel particolare momento in cui una
manifestazione di fede assumeva i contorni di uno spettacolo da circo o da
stadio.
Prima della
fine della Messa il vescovo si avventurò con toni aspri e minacciosi in
un’omelia contro le degenerazioni, le ipocrisie, la corruzione, l’indifferenza
della gioventù, la fine di ogni sacro valore, il
materialismo imperante. Egli sentiva e si preparava per allontanarsi alla
svelta da casa e passare qualche ora tranquilla in una trattoria di campagna.
Intanto si chiedeva come mai il palco non fosse crollato, avendo intorno tutte quelle autorità il cui sguardo avido corrodeva
anche il legno dell’impalcatura. Forse il Santo non voleva rotolare nella
polvere tra loro. Qual era la corruzione dei tempi cui alludeva il vescovo, il
mutato e libero rapporto tra i sessi con la scomparsa dell’idea stesa di
verginità, tanto cara a Maria e ai suoi cultori,o l’insaziabile voracità dei pubblici amministratori? O alludeva forse alla sempre più debole sensibilità di certi
devoti, che le proprietà vicine al borgo preferivano lasciarle agli eredi
legittimi per eventuali lottizzazioni anziché all’Ente morale di questa o di
quella parrocchia della diocesi?
Ogni messaggio
era ben chiaro per quell’ateo che si accingeva ad
andarsene tempestivamente per non incocciare nella solenne processione, che
egli vedeva come una pietosa e ridicola manifestazione di imbecillità
collettiva.
Ma la maggioranza imponeva quelle regole ed egli, non potendo contrastarle senza odio ed irritanti altri strascichi, civilmente le
evitava. Nel meriggio inoltrato di quella concitata domenica abbandonò il
pergolato della trattoria che lo aveva riparato dalla calura del giorno e si
avviò verso casa.
Presto si
accorse che aveva sbagliato i calcoli. Qualcosa era cambiato in una tradizione
che credeva di conoscere: a causa del caldo eccessivo la rituale processione a
fine Messa era stata rinviata al pomeriggio, e senza
vescovo. Non poteva un prelato sottoporsi al comune sacrificio cui obbliga la devozione, neppure dopo il lauto obolo della
commissione per i festeggiamenti.
Constatò l’errore, e con rammarico, allorché si trovò a
breve distanza dai componenti delle pie associazioni che in doppia fila e con
relativi stendardi precedevano l’immagine del Santo, la banda musicale e il
prete officiante. Dietro la statua la lunga teoria dei
fedeli preganti e vocianti; le litanie variavano da soggetto a soggetto. Non
c’era possibilità di deviare. Allora bloccò la macchina all’ombra dei platani
nella parte più larga del lungo viale e attese che la processione facesse il percorso prestabilito.
Nulla di
preciso sapeva delle varie tappe per consentire ai devoti di ogni
rione di festeggiare il passaggio del Patrono con terrificanti esplosioni di
batterie, a cui di lontano, ma sempre da un posto fisso, facevano eco le bombe
carta dell’artificiere lanciate in alto con i mortaretti.
Mentre attendeva paziente il ritorno alla normalità, vide
che la processione si era divisa in due tronconi: da una parte le ordinate
avanguardie, poi un gran vuoto, dopo di che la banda musicale, la statua del
Santo e tutto il seguito dei fedeli.
Si erano spente
all’improvviso preghiere, litanie, giaculatorie e note
musicali; quel silenzio religioso precedeva lo spettacolo dei fuochi per il
gradimento del Santo, che troneggiava alto su un supporto improvvisato a forma
di nave, tenuto a spalla da una ventina di devoti. Egli se lo ritrovava di
fronte dall’altro lato dello slargo alberato. Dal finestrino abbassato
osservava la situazione e non ebbe nemmeno il tempo di ricordare qualcosa di
quel silenzioso dialogo della prima sera, che vide la medesima, impalpabile
ombra agitarsi sulla mitria come per disporsi rassegnata alle torture del
momento.
Cercava
comprensione dove non c’era spazio per la sua aureola; ma in quella circostanza
egli intuì, e con sorridente garbo avviò un breve dialogo col Patrono in un
frastuono d’inferno.
Ateo: Ma come, non sei contento di tutte queste attenzioni e premure?
Chissà cosa farebbe per un tal tripudio chi ora ti sta davanti!
Santo Patrono: La tua ironia mi rende più lieve il disagio e
comprendo pure che non è diretta a me, se non come oggetto di
interessate premure.
Ateo: Insomma, non ti piace essere trascinato in un clima di pandemonio e
su un trono ridicolo lungo le vie addobbate e illuminate; eppure è l’unica
occasione di giubilo di tanti fedeli che si privano anche di qualcosa per farti
una festa veramente chiassosa. Pensa che c’è una devota tanto
avara, che diventa una bestia se le chiedono un’offerta per sostenere e
alimentare qualche bimbo affamato mentre non lesina elargizioni per ceri,
lumini, Messe solenni e fuochi d’artificio. Sulla stola che
porti al collo, poi, attacca pubblicamente grosse banconote nel corso delle
processioni, per dare dimostrazione del suo zelo religioso e della sua pietà.
Che mi sai dire al riguardo?
Santo Patrono: E’ soltanto un effetto della paura, una
degenerazione della fede, è grossolana ricerca di stima e consenso; ma vedo che
me lo chiedi per divertirti e per farmi sfogare il magone.
E’ vero, la nostra immagine si deve piegare alle deformazioni concettuali dei
credenti, contro cui nulla possiamo fare senza
annullare la base stessa della nostra immaginaria potenza. Io vorrei solo che
capissero, che intuissero, rileggendo le nostre agiografie, che nostro sommo desiderio
è starcene in pace e in contemplazione, e invece ci affliggono di continuo con
ogni forma di angheria che definiscono devozione. Sono
deboli, fragili, bisognosi, è vero, ma non è così che si ottiene ascolto e
soddisfazione.
Ateo: Se puoi davvero fare qualcosa, spegni d’incanto ovunque i puzzolenti
ceri. Sai, mi sono trovato per puro caso in un tuo santuario e per poco non
sono morto nella cripta: ero solo e sopraffatto dal puzzo improvviso e
nauseante di centinaia di ceri e lumini accesi per devozione. A stento riuscii
a guadagnare l’aria pur viziata dei primi gradini. Come riesci
a tollerare supinamente quelle zaffate mefitiche?
Santo Patrono: Non vedi che sto sempre più in alto rispetto ai
luoghi dove si attiva tanta stupidità, che barattieri d’ogni genere definiscono
devozione? E poi la secolare abitudine attenua di
molto gli effetti di certi fenomeni. Se rifletti bene,
vedi che il nostro credo ha origini luttuose e macabre, dunque si articola in
un alone di morte e miasmi; non posso modificare nulla.
Ateo: Santa conclusione la tua e porta un raggio di verità tra ombre e
misteri. Intanto sta per finire questo baccano d’inferno e tu sei più agitato e
triste, come mai?
Santo Patrono: Sapessi quello che mi
aspetta più avanti! Oh, me infelice, e non ho a chi rivolgermi per aiuto!
E l’immagine ritornò alle note apparenze. La banda
aveva ripreso a suonare, mentre l’acre fumo asfissiante della batteria si
diffondeva dintorno e per terra si erano sparpagliati, per largo tratto,
brandelli di carta bruciacchiata. Tutti si erano rimessi nell’ordine di prima e
mentre si procedeva alla ricomposizione dei due tronconi le autorità si
volgevano verso la statua come per cogliere sul suo volto qualche segno di
gradimento e di soddisfazione, volevano sentirsi gratificate
della loro presenza al corteo e per qualche cospicua elargizione per i fuochi
d’artificio e festeggiamenti, pure quelli soggetti ad appalto, qualche volta.
Non posso
riferire ciò che udii e vidi sotto forma di luminoso borbottio dall’alto della
statua: il Santo Patrono mi comunicò con la coda dell’occhio di tenere tutto
per me, di non tradirlo per una mia particolare soddisfazione di dissenso verso
certi soggetti; e seguì chi lo trascinava.
Passò poi tutto
il corteo e disparve lungo le stradine del sobborgo. Quando
svanì anche l’eco delle ultime giaculatorie biascicate dalle pie donne a modo
loro, tirò un sospiro di sollievo e ripartì. Non si era ancora
allontanato di tanto, da non sentire l’infernale sarabanda che i devoti del
rione di sotto avevano scatenato. Batterie dal fragore
tremendo, più lunghe delle precedenti, sparate in una stradina fiancheggiata da
case costruite con tufo e malta; e tutto col consenso delle autorità.
Non posso dire ciò che il Santo mi aveva pregato di
tacere.
Batterie
congegnate in modo singolare: mentre una bomba carta esplodeva per terra,
un’altra partiva per esplodere più in alto; così, alternativamente, per una
ventina di volte.
Oh,che gioia negli occhi di tanti devoti in cui quegli scoppi
micidiali finivano con l’ottundere completamente le già deboli capacità di
comprendonio! E il Santo ne era atterrito.
Anziché
rientrare a casa preferì dirigersi verso il colle e sostò in un punto che gli
consentiva di seguire dall’alto gli sviluppi della processione. Certo che anche lassù giungeva quel frastuono comunque irritante, e vedeva uccelli vagare senza meta sotto
l’effetto di quei terribili boati. Sapeva che pure i cani e i gatti hanno l’abitudine di rifugiarsi sotto qualsiasi cosa li
tenga al riparo da un simile pandemonio invece di addentare le gambe di chi lo
provoca.
Uno
sconquasso volgare e violento nell’ordine delle cose effettuato nel nome della
devozione. Il Santo Patrono
sapeva anche che quei bischeri fantasiosi attribuivano quelle irritanti
iniziative al rispetto delle tradizioni e delle usanze, al folklore, alla
credenza di esorcizzare così le potenze maligne, senza mai avere il buon senso
e il coraggio civile di attribuire l’increscioso fenomeno al fattore più
autentico: l’imbecillità.
Una vera scena
di guerra si verificò quando la statua giunse sul
sagrato: tremende batterie come quelle udite nel rione di sotto furono accese
nello spiazzo accanto alla chiesa, mentre da un terreno a tergo gli artificieri
diedero luogo ad una lunga e terribile sequela di mortaretti, e le campane
squillavano a distesa, e la banda musicale aveva intonato una marcia solenne;
tutto per chiudere degnamente la funzione e festeggiare il ritorno del Santo
sull’altare. Un vero saggio di quanto gli sarebbe accaduto anche per gli anni a
venire, con incremento annuale di toni e di durata di tali
festeggiamenti.
In quel cancan quasi tutti i fedeli si erano stipati in chiesa per la
benedizione finale, e chi non era entrato si era aggruppato intorno alla banda
che continuava a far sentire maggiormente il suono di trombe, piatti e
grancasse; e tutto nel fumo denso e acre che si spargeva intorno alla chiesa. Ad
un certo punto intravide un’ombra gigantesca profilarsi a perpendicolo sul
campanile, sempre più agitata quanto più irritante si levava il frastuono. Le
mani alle tempie in un gesto di disperazione, gli occhi socchiusi mentre
agitava la testa, e a mano a mano che si allontanava verso l’alto
si tirava appresso, sotto di sé, tutto il fumo delle bombe esplose in suo
onore, e non potendo parlare in quello stato di profonda prostrazione, scrisse
alto nel cielo con le volute del fumo solo una parola: OH,IMBECILLI! a caratteri giganteschi che tutti avrebbero potuto vedere.
Ma erano in chiesa e sul sagrato, e i destinatari di quel messaggio non
potevano recepire il ringraziamento del Patrono;
dunque, tutto era inutile. Ma c’era il silenzioso interlocutore lassù, che vide
e recepì l’appello di un Santo che non aveva modo di
far capire al suo gregge quali erano i suoi più autentici desideri nella
ricorrenza delle feste.
Mentre rifletteva
su certi inconvenienti della devozione, la scritta di fumo a poco a poco si
dissolse nell’aria e d’improvviso brillò laggiù, nella luce del tramonto oltre
l’apertura di fondo valle, un giocattolo che scivolava
rapido nel piano come a cercare una sosta sicura per la notte col fantasioso
bambino che si trastullava a capo del binario.
Egli guardava
stupito da quel nuovo fenomeno, poi capì che era un treno vero che si muoveva
in una lontananza non solo spaziale.
Non c’era più
il pennacchio, altri tempi. Ma quell’ultimo abbaglio
dei vetri colpiti dal sole che sfiorava le acque del mare
illuminò scene lontane, e con le immagini che si facevano sempre più vive
tornarono le voci e i canti, il fragore di risate, le urla e i richiami e tutte
le note di un mondo timido che si muoveva sul passo di ardite speranze.
E allora si delineò a ritroso la strada lungo la quale correva un mondo
di palpiti acerbi che cercavano mete lontane più gratificanti e certe.
Riapparve come in sogno la roccia più alta del colle e nel piano il pennacchio
bizzarro di una vaporiera che correva sul Binario dei Mesti Sorrisi.