L’antica Cales resta sepolta
ANTONIO
PISANI
Il Mattino, 24 luglio 2007
Non c’è più posto nella storia moderna
per l’antica Cales. Di quella che fu una città preromana crocevia di civiltà antiche come l’aurunca, l’etrusca e la sannita, divenuta colonia romana
già nel 420 a.C.,
sopravvissuta nel medioevo ai Longobardi e agli Aragonesi,
resta solo qualche cenno su libri dedicati ad appassionati di archeologia
mentre altre informazioni si possono trovare su qualche sito internet.
Il solo e unico aggancio con il
territorio, è la scritta a caratteri cubitali che campeggia sul pannello di
benvenuto all’ingresso di Calvi Risorta in cui si
ricordano le sue origini che si perdono nella notte dei tempi. Poi più nulla, se si eccettua qualche rudere visibile come il
castello Aragonese o la dogana borbonica, divenuti
ormai discariche a cielo aperto. Il resto, ossia l’intera parte
meridionale dell’antica Cales, il cuore dell’urbs con il foro, il teatro, le terme, i templi,
l’anfiteatro, rimane invisibile, completamente divorata dalla vegetazione, dove
si possono trovare auto abbandonate; e attraversata irrimediabilmente dal ponte
dell’A1 Napoli-Roma.
Se Teano è la
città delle occasioni sfruttate e perdute, almeno per il momento, Calvi Risorta
è forse il centro più ricco di storia della provincia di Caserta
ma che, alla storia, e quindi ai tanti appassionati turisti, ha completamente
voltato le spalle. C’è un’unica cifra lì a confermarlo: quel 5% di scavi
effettuati. Il patrimonio, insomma, è ancora tutto da riportare alla luce e da
scoprire.
«Sempre che
- ricorda Colonna Passaro,
funzionaria della Sovrintendenza per i beni archeologici di Napoli e Caserta responsabile dell’ufficio Calvi Risorta - la
camorra ci faccia trovare qualcosa».
Sono proprio gli uomini dei clan, non
solo i Casalesi ma anche gli affiliati alle potenti
famiglie del luogo, i tombaroli più attivi da oltre 20
anni, gli unici che in pratica scavano e riportano alla luce reperti
inestimabili. La stessa funzionaria calcola che, per colpa degli scavi
clandestini, «si sia volatilizzato quasi il 40% di tutto il patrimonio sotterraneo».
Il paradosso è che, solo dopo il ritrovamento di scavi illegali, la
Sovrintendenza riesce ad intervenire nei siti violati proseguendo lo scavo
grazie a fondi per le emergenze. Altrimenti, non si scaverebbe affatto.
«Quei reperti che poi vengono trovati - dice la funzionaria - finiscono nei
depositi di Santa Maria Capua Vetere
o di Napoli o in musei stranieri. Ce ne sono alcuni al
Prado di Madrid».
L’ex Sovrintendente di Napoli e Caserta, Stefano De
Caro, voleva creare un museo a Calvi, sfruttando
l’ex seminario settecentesco, ora a rischio crollo, ma non se n’è fatto nulla.
«Cercammo di sensibilizzare la curia e
il Comune, ma fu inutile» dice Passaro. Così come non
si è fatto nulla del Parco Archeologico. Una serie di idee
mai attuate, non solo per la scarsità di fondi ma anche per la mancanza di
volontà delle varie amministrazioni locali che si sono succedute a collaborare
per riportare alla luce il patrimonio.
«Chiedemmo al Comune
uno spazio per esporre i pannelli illustrativi sugli scavi - cita come esempio
la Passaro - ci diedero il sottoscala del
Municipio».
Ora, ci sarebbero 760 mila euro per
restaurare il castello medioevale, sbloccati grazie ai fondi Por (dell’Unione
Europea), ma i lavori proseguono a rilento. Si parla di contenziosi tra le ditte
che devono eseguire i lavori e il comune. Comunque una
goccia nel mare. I circa 60 ettari dell’antica Cales
restano così dimenticati. Non c’è nemmeno un cartello che indichi l’area dove
sorgeva l’urbs: dalla Casilina,
si imbocca una normale stradina di campagna.
Senza saperlo, ci si trova a percorrere il «cardo maximus» (la via principale) e a passare per l’area del foro, dell’anfiteatro; le terme centrali sono sommerse dai rovi, si scava solo al teatro. E nel punto in cui ci sarebbero delle tombe, c’è una discarica sormontata dal ponte dell’A1. Nella parte nord dell’antica città, resiste solo la cattedrale del patrono San Casto, aperta per le cerimonie religiose. A poca distanza, il castello aragonese e la dogana borbonica muoiono tra i rifiuti.