Aldo Loris Rossi
Il governo ha proposto la trasformazione di nove grandi province in città metropolitane, proposta da approvare in Parlamento.
Quali prospettive si aprono per la provincia di Napoli che ha la più alta
densità abitativa d'Italia (2.641 ab./kmq), quasi 4
volte quella di Roma, dieci volte Palermo? Per avere un'idea dei suoi limiti
basti considerare che la distanza tra Napoli e Caserta è
pari al diametro del grande raccordo anulare (23 km).
Dunque, San Pietro si trova all'incirca dov'è Aversa,
cioè al confine tra le province di Napoli e Caserta.
Fino agli inizi dell'Ottocento questo confine non c'era. La piana campana,
quale unità geomorfologica, storica, economica,
formava una sola provincia: la Terra di Lavoro.
A tali limiti si aggiungono quelli del Comune di Napoli. Solo nel
1925-27 fu raddoppiato restando, comunque, 13 volte
più piccolo di Roma, ma cinque volte maggiore per densità abitativa. Insomma,
Napoli trasformandosi negli ultimi cinque secoli da piccola città in equilibrio
con lo straordinario paesaggio nella metropoli più densamente popolata
d'Europa, è implosa su se stessa incapace di svilupparsi in modo organico sul
territorio.
«Mai la città ha avuto una guida capace di travasare l'antica struttura
in un nuovo organismo aperto. All'opposto: si è lasciato che la città si
chiudesse in se stessa proponendo sviluppi concentrici e ha raggiunto in forma
diffusa le più assurde densità edilizie».
Questa lucida diagnosi fu formulata nel Piano del Comune e del
Comprensorio di Napoli (?63-'64) coordinato da Luigi Piccinato,
il solo piano comprendente la città e l'area metropolitana. Ma
quando e come si è configurato tale impianto radiocentrico
implosivo?
L'armatura urbana antica non era centrata su Napoli, che aveva un ruolo
del tutto marginale; bensì su Capua, la più grande città della Campania Felix.
Essa era la metropoli generatrice della dodecapoli
etrusca che dal Volturno si snodava ai piedi dell'Appennino fino al Sele, in un sistema lineare formato da Acerra,
Nola, Nocera, Ercolano,
Pompei, Pontecagnano; mentre le coste erano
controllate dalle poleis greche e l'Appennino dalla
rete dei recinti fortificati sanniti.
Questi tre sistemi urbani paralleli furono unificati nell'armatura
urbana romana incardinata su due grandi arterie: la via
Appia, regina viarum', Roma-Capua-Brindisi diretta a oriente; e la via Popilia, Capua-Reggio-Palermo,
verso l'Africa; antesignane del 'Corridoio Transeuropeo
V' Bari-Sofia-Varna e del Corridoio I Roma-Capua-Palermo. Da Capua si irradiavano sette strade consolari.
Una, l'Atellana giungeva oltre Atella, a Napoli, città di otia
dove «fanno continuare la vita greca coloro che vi accorrono da Roma per
cercarvi riposo e hanno atteso alle lettere, oppure per vecchiaia o infermità
desiderano vivere in pace» (Strabone). Beloch ricava da Tito Livio i
pesi demografici: Capua contava 80-100 mila abitanti;
Pozzuoli, Baia, Miseno e Cuma,
100 mila; Napoli 30 mila; Nocera e Nola 25 mila;
Pompei 20 mila, Ercolano e Sorrento 10 mila; mentre
l'intera piana campana ne aveva circa 450 mila, un
decimo di quelli odierni.
Tale armatura urbana entra in crisi nel V secolo, anche per la mutazione
ambientale definita dai paleoclimatologi 'Piccola Età Glaciale Alto Medioevale'
(500-750).
Essa instaura un periodo freddo-piovoso che impaluda coste e depressioni
orografiche infestate dalla malaria, causando l'estinzione di città litoranee (Miseno, Volturno, Literno) e
interne (Cales, Teano, Calatia,
Suessula, Atella).
Due ulteriori eventi mutano tale assetto. Il
primo, la distruzione di Capua (841) a opera dei saraceni, sconfitti poco dopo da Cesario Console
nell'849, figlio del duca Sergio I in due battaglie navali, Gaeta e Ostia.
Questo segna l'ascesa di Napoli che contende il primato a Capua,
rifondata nell'ansa del Volturno (856) sito dell'antica Casilinum.
Il secondo, è la fondazione di Aversa (1030) concessa dal duca Sergio IV ai normanni per
difendersi dalla riemergente Capua. Si forma così un asse tripolare Napoli-Aversa-Capua quale spina dorsale della Campania
normanna, mentre la città più popolosa del regno è Palermo (300 mila abitanti
per L. Benevolo), dieci volte Napoli.
Questa, divenendo capitale angioina, dopo la
perdita della corona della Sicilia (1282), modifica tale struttura assiale in radiocentrica per collegarsi direttamente con tutte le
province. Avendo ceduto Benevento al Papa crea, anzitutto, una nuova strada per
le Puglie; quindi ritraccia
le direttrici calabra e sannita, potenzia la via
Latina, mentre l'Appia pontina
e la Domitiana restano abbandonate alla malaria. In
tale contesto Capua assume
il ruolo di 'chiave del regno'.
Dalla Generalis Subventio
(1320) che censiva le tasse dei 'fuochi', A. Filangieri
(2002) calcola nell'odierno limite provinciale circa 126 mila abitanti; cioè quelli attuali del Vomero-Arenella.
Con il viceregno spagnolo l'impianto
radiocentrico si consolida, costruendo lungo le
cinque strade che si diramano da Napoli verso i confini terrestri e costieri un
sistema di imponenti fortezze. L'area che oggi chiamiamo
provincia si ingigantisce in modo ipertrofico toccando il massimo della
popolazione prima della peste (1656) con 553 mila abitanti. Nel 1789 tale
popolazione giunge a 790 mila abitanti.
Pochi anni prima Gaetano Filangieri aveva denunciato: «Io non dico che non ci
dovrebbe essere una capitale di una nazione bene regolata, dico solo che se la
testa si ingrandisce troppo, se tutto il sangue vi
corre e vi si arresta, il corpo diviene apoplettico e tutta la macchina si
scioglie e perisce» (1781).
Ma dalla metà del Settecento si conferma ancora l'impianto radiocentrico ristrutturando la città e l'area
metropolitana con le tre principali direttrici che vanno: verso sud-est, alla
reggia di Portici, ai siti archeologici di Ercolano e
Pompei allora scoperti e ai cantieri navali di Stabia,
attraverso il Miglio d'Oro arricchito da oltre un centinaio di ville
aristocratiche; verso nord alla incomparabile reggia
di Caserta e agli opifici reali di San Leucio; verso ovest, ai siti reali degli
Astroni e del Fusaro.
In realtà mentre l'assolutismo regio e la nobiltà attuano tale prestigiosa sistemazione territoriale, sottovalutano o
ignorano l'arretratezza del regno, denunciata viceversa dagli illuministi, e
contrastano la borghesia, che intanto diviene in Europa la protagonista della
storia con le rivoluzioni industriale e francese.
Quei problemi, insoluti nell'ultimo periodo borbonico e parzialmente
affrontati nei primi 90 anni unitari, esploderanno nel secondo dopoguerra
quando la provincia di Napoli giunge a 2.421.000 abitanti con la suddetta
devastazione urbanistica e ambientale che collassa lo
stesso impianto radiocentrico.
Dunque, sono le ragioni storiche suddette che rendono
irresponsabili le massicce urbanizzazioni e lo sventramento del centro storico
proposti dal consociativismo negli anni Ottanta.
Oggi Napoli è chiamata ad assumere il ruolo di
città metropolitana e a integrarsi sempre più col
territorio provinciale che ha problemi non meno gravi. Mentre la provincia
supera i 3 milioni di abitanti, i 91 Comuni che
assediano Napoli raggiungono i 2 milioni, cioè il doppio dell'ex capitale. Quindi, bisogna riequilibrare tre Napoli.
Questo, in un'area con oltre 4 milioni di vani in
maggioranza post-bellici privi di qualità ampiamente 'calcuttizzati'
(F.Compagna), una deindustrializzazione
incalzante e un insufficiente inquadramento terziario del territorio, nel quale
la disgregazione sociale ed economica è conseguenza e, insieme, causa delle
disfunzioni che lo soffocano. In tale situazione la città metropolitana rappresenta
una sfida storica che non si può vincere senza una mobilitazione etico-politica generalizzata.
Essa deve porre tra gli obiettivi quello mai
affrontato di «travasare l'antica struttura in un nuovo organismo aperto» al
territorio come chiedeva il piano comprensoriale di Piccinato.
Di fronte a una tale sfida si pongono due
interrogativi. Si riuscirà, in generale, ad attuare un piano strategico
economico-territoriale capace di far uscire l'area metropolitana dal labirinto
del sottosviluppo e dall'impianto radiocentrico implosivo, introducendo una direzionalità
che guidi lo sviluppo futuro?
E, in particolare, si
riuscirà a trasformare la rivoluzione trasportistica
in atto, basata sulla creazione di un sistema integrato a scala
euro-mediterranea, in un'occasione per rifondare la suddetta armatura urbana,
ormai in decomposizione?